Nel “condominio” Prato i rapporti di buon vicinato fra italiani e cinesi sono ormai un ricordo. Un lontano ricordo, per la cittadina a pochi chilometri da Firenze, è la sua lunga storia di tolleranza, fatta di convivenza tra 110 etnie diverse. Nelle ultime settimane sono arrivati in Comune 240 esposti, il pronto soccorso dell’ospedale è intasato da cinesi che non hanno medico di famiglia e si rivolgono lì per qualsiasi disturbo, i condomini pratesi che vivono sullo stesso pianerottolo con famiglie asiatiche si lamentano delle case-dormitorio, del via vai continuo di persone e merci, delle carni messe a essiccare. Non si sopportano più «rumori e odori», mentre gli anziani urlano contro i cinesi: «Sudicioni tornatevene a casa».
Ecco perché martedì 19 gennaio i pochi pratesi rimasti che vivono nel quadrilatero attorno a via Pistoiese, la Chinatown della città toscana, hanno applaudito da marciapiedi e balconi il blitz spettacolare della la polizia. Dall’alto un elicottero che faceva da Tom tom, gli agenti a terra che facevano irruzione nei capannoni dove centinaia di clandestini lavoravano in condizioni di “moderna” schiavitù. Trenta aziende sono state sigillate e 70 cinesi portati in Questura.
Il console a Firenze, Gu Honglin, ha protestato e ha paragonato la polizia italiana alle SS naziste che tiravano fuori dalle case donne e bambini. Da Roma, invece, il ministro dell’Interno, Roberto Maroni, ha teorizzato un «modello Prato» da copiare dappertutto. Lo stesso ministro sarà martedì 26 gennaio in città per rispondere all’appello del sindaco Roberto Cenni che chiede uomini e mezzi per stroncare l’illegalità fatta di 500 controlli (blitz) l’anno. Più d’uno al giorno.
I cinesi a Prato sono almeno 30 mila su 180 mila abitanti. Oltre il 15% della popolazione, mentre la media nazionale di immigrati è al 6%. Le prime avanguardie sono arrivate negli anni ’90 da Weng Zhou (vicino Shangaí) e con il passare del tempo la comunità si è stratificata socialmente. E’ nato un ceto di milionari, una borghesia degli affari che possiede aziende anche da 15 milioni di fatturato, si riunisce al ristorante Hong Kong e gravita attorno all’associazione di amicizia Weng Zhou.
Questa neo-borghesia, fatta di uomini e donne di 55 anni con figli nati in Italia e che parlano la nostra lingua senza erre moscia, è arrivata a Prato e ha inventato un modello di business che non esisteva. Nel gergo si chiama «pronto moda», 500 aziende che copiano stilisti e catene di successo, producono a velocità turbo lavorando 7 giorni a settimana e 20 ore al giorno, per poi venderli sui mercati europei a prezzi mostruosi (jeans a 5 euro, giacche a 10-12 e cappotti a 30).
Questi prodotti venduti in negozi e mercati rionali hanno scalzato maglie e abiti dei piccoli confezionisti del Napoletano e di Martina Franca, grazie a due condizioni necessarie. I cinesi comprano sempre di più le stoffe direttamente nel loro Paese (se le acquistassero dai tessitori di Prato spenderebbero il doppio) e la loro filiera produttiva ha a monte una miriade di laboratori conto-terzisti che sfruttano il lavoro di connazionali arrivati con visto turistico a tre mesi.
Un meccanismo, preciso come un orologio svizzero che ha retto anche alla crisi economica. Una cosa va detta però, il distretto del tessile, che ha fatto ricchi i pratesi per decenni, non è andato in crisi per colpa dei cinesi. Il distretto non si è evoluto o non ha voluto evolversi. Il potere di mercato e il valore si spostava a valle e non bastava più tessere ottime stoffe, bisognava anche confezionarle e venderle. I «vecchi ricchi» hanno fatto spallucce. Mentre quei pochi che l’hanno capito si sono salvati e uno di questi è proprio il sindaco-imprenditore Cenni, proprietario della ditta Sasch. Ora Cenni ha deciso che così non si può andare avanti e che, se la politica non si muove, la borghesia del ristorante Hong Kong accumulerà tanti soldi da mangiarsi la città.
Ma Cenni da uomo di business sa anche che Prato non può più fare a meno dei cinesi, resterebbe un museo della deindustrializzazione e nessuna legge speciale da stato di crisi la salverebbe. Da qui l’idea di premere sui cinesi per costringerli a un accordo. Di fatto con il blitz di martedì scorso è partita la «prima guerra del tessile». Il «piano», un’operazione che si basa su un mix di sicurezza e politica industriale, intende fare terra bruciata attorno ai capannoni clandestini per portare la borghesia cinese di Prato a stipulare un patto locale anti-crisi.
Le loro ditte si devono mettere in regola, comprare i tessuti dalle aziende di Prato e in cambio il sindaco-imprenditore si sta impegnando a concludere un accordo con le catene della distribuzione, tipo H&M e Zara, per vendere loro il pronto moda tosco-cinese in grandi quantità e a prezzi contenuti. Ma perché i cinesi dovrebbero sottoscrivere un’intesa che farebbe lievitare fortemente i costi? «Possono confezionare un prodotto migliore. Non venderanno più cappotti a 18 euro ma magari a 30. E saranno cappotti di qualità più alta» risponde Cenni. E i cinesi rinunceranno a cuor leggero alla loro filiera sommersa, al loro piccolo Eldorado? Zara e H&M accetteranno di salvare la coesione sociale di Prato?
La sfida comunque è lanciata ed è difficile che il Comune e il governo tornino indietro. Un’intesa con gli industriali cinesi rappresenterebbe una grossa novità tanto da farne davvero, un «modello Prato», ma oggi esistono scarsi canali di comunicazione tra le due borghesie e le due comunità. È assai difficile che qualcuno a Prato parli del «mio amico cinese» o lo inviti a cena.
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