Usa, ripresa mancata: la crisi del lavoro e i milioni di posti “fantasma”

Pubblicato il 29 Gennaio 2011 - 05:52 OLTRE 6 MESI FA

In America ci sono milioni di posti di lavoro che non sono mai nati, sono rimasti impieghi fantasma, predizioni di una scienza sempre in bilico sul filo del vaticinio, come l’economia. Quel che è certo, è che alla fine degli anni novanta la maggior parte degli economisti erano sicuri che nel decennio 2000-2010 gli Stati Uniti avrebbero vissuto anni di prosperità, aumento del prodotto interno, crescita dei salari, produzioni di posti di lavoro. Siamo ormai al gennaio del 2011, e nulla di tutto questo si è mai avverato. Al contrario l’America ha vissuto la sua più grave recessione dal 1927 ed esce dalla crisi come un gigante zoppo, minacciato nel suo ruolo di superpotenza mondiale dai poteri emergenti.

La crisi arrivava da lontano, ma nessuno (tranne qualche visionario) l’ha vista arrivare. Negli anni novanta l’ufficio di Statistica americano aveva predetto che negli anni duemila 22 milioni di posti di lavoro sarebbero stati prodotti, una percentuale solo di poco inferiore al risultato dei dinamici anni novanta. In realtà, gli anni duemila, piuttosto che la progressione economica, hanno segnato l’inizio della crisi. E’ in quel momento – molto prima della bolla dei subprime e del collasso di Wall Strett – che la macchina della prosperità si è arrestata, inceppata, incapace di ripartire. Cos’è successo?

La risposta, ovviamente, non la conosce nessuno. La complessità dei rapporti economici e finanziari, in questi anni di crescente globalizzazione, impedisce l’individuazione di fattori univoci per quella che è stata la prima grande crisi del secolo e per la generale fase di stagnazione dell’Occidente. Se le cause della recessione sono ancora lontane dalla nostra comprensione, la malattia ha mostrato però, con tragica evidenza, i suoi sintomi. Nel caso americano sono evidenti, in particolare, gli indici di una generale depressione del mercato del lavoro.

Al contrario di quello che è successo per decenni, con gli anni duemila un’economia in espansione non si è coniugata con la creazione di posti di lavoro o con la crescita dei salari. Questo vuol dire soprattutto una cosa, e cioè che i dividendi generati dai benefici non sono rientrati più nel circuito produttivo ma sono finiti nelle tasche delle compagnie e dei loro top management. Tale situazione è forse il risultato di un cambiamento epocale nel sistema americano. Questo, fin dal dopoguerra, si era basato, grazie ad una formazione intellettuale senza eguali nel mondo occidentale, su costanti progressi tecnologici, i quali diventavano le basi di importanti produzioni industriali. Le grandi compagnie esportavano dappertutto nel mondo i loro prodotti all’avanguardia. In America si creavano fabbriche o posti di lavoro specializzati per rispondere alle esigenza di una domanda internazionale.

Oggi non è più così. L’America, per la prima volta nella sua storia novecentesca, è un paese in stagnazione. Un paese che ha fatto dell’innovazione la sua anima commerciale, oggi, nel decennio più globalizzato della storia umana, si ritrova in affanno sullo scacchiere mondiale. Quello che è successo, in pochissimi parole, è che la globalizzazione, nei paesi sviluppati come l’America, ha profittato ai ricchi, ma è stata una pugnalata nella schiena per la classe media. Se prima, dopo un ciclo recessivo, la mano d’opera licenziata era generalmente riassunta con l’apparire dei primi segni di ripresa, oggi le grandi industrie adottano un altro atteggiamento. L’informatizzazione dei processi produttivi e la delocalizzazione della produzione resa possibile dai progressi dei trasporti, hanno spinto sempre più gli imprenditori a rimpiazzare la forza umana locale con dei computer o con della mano d’opera a basso costo proveniente da paesi in via di sviluppo.

Il problema non sono dunque i soldi. Quelli ci sono, e, soprattutto, ci sono stati. Il problema è che le grandi imprese non li hanno reinvestiti, e non li reinvestono più, nell’innovazione – che sarebbe poi il motore di nuovi cicli produttivi. Probabilmente, sostiene qualcuno, gli Stati Uniti non realizzano niente di innovativo semplicemente perché manca il capitale umano per farlo. Per la prima volta nella storia, i giovani americani saranno meno istruiti, meno formati dei loro genitori. C’è una cosa su cui ogni analista è d’accordo, di qualunque dottrina esso o essa sia, che sia “liberal” o conservatore. L’educazione, primaria, secondaria, o superiore, è una delle chiavi di volta di questo rompicapo che consiste nel far ripartire il motore di una macchina che si è inceppata ormai qualche anno fa.