Isis. Il Grande Califfato. Domenico Quirico racconta disegno totalitario

di redazione Blitz
Pubblicato il 8 Aprile 2015 - 08:12 OLTRE 6 MESI FA

ROMA – Era un pomeriggio di battaglia ad al-Quesser, in Siria, quando per la prima volta Domenico Quirico sentì parlare di Grande Califfato. Il giornalista del quotidiano la Stampa, rapito e poi rilasciato dopo 5 mesi dai ribelli di Jabhat al-Nusra (Al Quaeda in terra siriana) ascoltò Abu Omar, il capo del manipolo jihadista che lo teneva prigioniero, proferire queste parole: 

“Con l’aiuto di Dio noi spazzeremo via Bashar e uccideremo tutti gli alawiti, anche le donne e i bambini. Costruiremo, grazie a Dio Grande Misericordioso, il Califfato di Siria. Poi sarà la volta degli altri capi traditori, in Giordania, in Egitto, in Arabia. Ma il nostro compito è solo all’inizio… Alla fine il Grande Califfato rinascerà, da al-Andalus fino all’Asia”.

Quando Quirico tornò in Italia, a settembre 2013, dopo 152 giorni di prigionia, si affrettò a lanciare l’allarme, rivelando ciò che anche altri comandanti di formazioni jihadiste gli avevano ribadito: il Grande Califfato non era un sogno velleitario, ma un preciso progetto strategico di (ri)conquista dell’Occidente. Parole apparentemente visionarie, quelle riferite dall’inviato della Stampa, che tuttavia rimasero inascoltate e che ora trovano tragico riscontro nelle recenti cronache che descrivono l’atroce avanzata dell’Isis, lo Stato islamico di Iraq e Siria.

Nel suo ultimo libro, intitolato appunto Il Grande Califfato (Neri Pozza), Quirico torna a parlare di quel terrificante disegno che chiama “totalitarismo islamista globale“. Lungi dal voler scrivere un trattato di geopolitica o di esegesi islamica, quello di Quirico è un viaggio nelle terre dominate dall’ideologia di Abu Bakr al-Baghdadi. Da Istanbul alla Nigeria, passando per Groznyj in Cecenia e le pianure di Francia, nel Sahel e in Somalia. Il racconto di chi i jihadisti li ha visti da vicino.

“Io faccio un mestiere diverso, quello del raccontatore e del viaggiatore che oltre non vuole andare: non ho ricette né formule, mi limito a constatare la realtà”.

In copertina è disegnata una spaventosa chiazza nera, che dilaga dalla Spagna e copre tutto il Medio Oriente, il Nord Africa, i Balcani e gran parte dell’Asia occidentale. Una mappa i cui contorni non sono poi così fantascientifici se si fa la somma dei Paesi in cui già oggi domina la sharia e che rende bene l’idea dell’agghiacciante piano di dominazione globale messo in moto dall’Isis. Per questo Quirico parla di totalitarismo, più che di terrorismo. Evidenziandone le differenze con Al Qaeda:

 “Eravamo abituati a ragionare nei termini dell’antico terrorismo di Al Qaeda, pensavamo che questa idea di costruire uno Stato fosse fantasia, è mancata la constatazione dell’enorme salto di qualità dei progetti e dell’organizzazione”.

Se l’organizzazione di Bin Laden “si proponeva di uccidere come unica attività”, quelli dell’Isis invece “vogliono riconquistare le terre di Dio“. Di qui il profilarsi di un nuovo totalitarismo,

“come lo erano quello nazionalsocialista o staliniano, sulle basi di un criterio che è la fede islamica che impone la separazione del mondo in due parti, con l’eliminazione di tutto ciò che è impuro”.    

E come ogni totalitarismo che si rispetti anche l’Isis ha una sua variante antropologica di uomo nuovo: 

Il combattente jihadista – spiega – non è l’ambasciatore di morte di Bin Laden, è un uomo nuovo“.

Per Quirico i jihadisti di oggi somigliano di più alle brigate internazionali che parteciparono alla guerra civile spagnola contro le forze nazionaliste di Francisco Franco:

“Uomini che nel progetto di rivoluzione mondiale di allora si erano liberati della loro identità umana precedente, erano pagine bianche su cui qualcuno aveva scritto un nuovo codice genetico”.

Questi uomini nuovi “ho avuto la fortuna di conoscerli”, dice ricordando i mesi di prigionia,

“Si sono costruiti un criterio identitario che gli serve da conchiglia di sicurezza per attraversare tempi torbidi. A questo punto il percorso comincia a divenire irreversibile, quando si abbandonano le proprie identità individuali per fondersi in quella che ormai è diventata la comunità”.

Quello che li unisce è niente più niente meno che una “tentazione totalitaria“, la convinzione assolutista di

“stare dalla parte dei giusti in un mondo dove tutto è intercambiabile: non c’è nulla come la religione che ti consenta di uccidere senza rimorso”.

E se in Tunisia, Egitto, Nigeria il jihadismo “ha approfittato della corruzione, della miseria, delle storture del mondo musulmano”, non è altrettanto vero per quelli che partono da qui. Quirico parla dei cosiddetti foreign fighters, cittadini con passaporto europeo che vanno ad ingrossare le fila delle milizie jihadiste. Succede a Londra, a Parigi, nello Yemen, dove “c’è una nuova specie che parte per andare a morire in Siria”.

Bisogna conoscerli, i foreign fighters, per capire che “sono il risultato del fallimento delle politiche di integrazione”.

“I combattenti stranieri – osserva Quirico – non sono tutti emarginati, ci sono esperienze incomprensibili di chi ha buttato via una vita normale”.

Ai jihadisti Quirico dà un nome e un volto, ci porta nei  luoghi del Grande Califfato, nelle città, nei villaggi, per le strade e nei deserti. Ci spiega le loro “ragioni”. E lo fa dando un nome e un volto anche alle vittime: fra tutti, i bambini cristiani di Erbil, che così piccoli hanno già conosciuto la morte. Unico difetto, osserva Francesca Caferri sul quotidiano la Repubblica, l’ineluttabilità. Quasi a voler radicare quel mondo, tutto, nel criminale disegno di una multinazionale del terrore, dinanzi alla quale non v’è più scampo. “Sarebbe stato bello – scrive Caferri – ascoltare anche la voce” di qui a quel disegno si oppone pagando al caro prezzo della vita.

La morale di tutto questo gigantesco incubo è, secondo Quirico, che noi ne siamo complici silenti. Tutto questo non sarebbe successo,

“se non avessimo fatto finta di niente: quello che sta accadendo è una filiazione diretta della rivoluzione siriana, che non era islamista. Abbiamo ignorato i ribelli, non li abbiamo aiutati ad abbattere Assad e gli islamisti hanno capito che quella era la loro occasione. Sarebbe bastato fornire armi ai ribelli e il corso della storia sarebbe cambiato, ora si cerca di recuperare il tempo perduto”.