Piero Ottone: il Corriere della Sera e l’avidità del potere, oggi come negli anni 70

di Redazione Blitz
Pubblicato il 11 Luglio 2013 - 15:22 OLTRE 6 MESI FA
Piero Ottone: il Corriere della Sera e l'avidità del potere, oggi come negli anni 70

Piero Ottone (a sinistra, foto LaPresse)

ROMA – Dalle colonne di Repubblica, Piero Ottone parla del Corriere della Sera (Rcs, Fiat, Marchionne, Della Valle). Ottone, che del Corriere è stato direttore in anni turbolenti, dal 1972 al 1977. Furono anni in cui il giornale di via Solferino prese una linea che una storica firma come Indro Montanelli giudicò “troppo di sinistra”, lasciando il quotidiano per fondarne uno suo, “Il Giornale”. Racconta Ottone, in un fondo dal titolo “Giornalismo e Potere”, che le acque tempestose in cui naviga il Corriere oggi assomigliano molto a quelle di 40 anni fa:

“Mi sembra di assistere a un film già visto. Ho alle spalle, anno più anno meno, settant’anni di giornalismo, parecchi trascorsi per l’appunto al Corriere, e posso raccontare che già in un’altra occasione la Fiat diventò l’azionista di punta del giornale. Ma allora tutto era chiaro. Fiat voleva dire in quel frangente (anno 1973) Gianni Agnelli, e Agnelli sapeva diventare, in qualche occasione, un generoso cavaliere. Il Corriere di quel tempo dava fastidio al potere costituito, alla Democrazia cristiana: era troppo libero, troppo spregiudicato. Eugenio Cefis, gran personaggio del tempo, fiancheggiatore del partito dominante, rappresentante di punta in quella che Scalfari e Turani chiamarono in un libro la razza padrona, voleva mettere le mani sul Corriere, portandolo via a Giulia Maria Crespi, ultima rappresentante della famiglia.

Agnelli intervenne: un po’ perché contrastava (con Leopoldo Pirelli, con altri grandi imprenditori) Cefis e la razza padrona, un po’ per cavalleria, perché era amico di gioventù di Giulia Maria. Ma non aveva secondi fini. Non pensava minimamente a servirsi del Corriere per qualche suo interesse, palese o recondito. Posso testimoniare che non si occupò mai del giornale: né della gestione aziendale né della linea politica. Solo una volta nel giro di un anno venne a farmi visita in via Solferino (allora dirigevo il giornale), perché era venuto a Milano per parlare con Cefis di Confindustria, e aveva mezz’ora a disposizione. Parlammo di tutto un po’, meno che del giornale. […]

Tutto questo avvenne negli anni Settanta. Ma adesso non c’è nessun Cefis alle porte, nessuna Giulia Maria pericolante, e Sergio Marchionne, nuovo patron della Fiat, non ha niente in comune con Agnelli. Perché fa dunque nel Corriere quello che ha definito un investimento strategico? Coi tempi che corrono?

[…] Ma il gruppo Rizzoli è controllato da industrie e banche, che hanno interessi diversi da quelli dell’editoria. Ed è purtroppo vero che sono rari in Italia i così detti editori puri, per ragioni storiche. Vi fu una prima crisi che ridusse il loro numero negli anni Settanta, in seguito all’autunno caldo: il costo della mano d’opera si impennò in breve tempo. Le grandi famiglie dell’editoria, come i Crespi e i Perrone, alzarono bandiera bianca: si affrettarono a vendere prima che fosse troppo tardi. È allora che subentrarono le banche e i gruppi industriali. Eugenio Cefis, presidente prima dell’Eni e poi di Montedison, fu tra i più avidi, e amabilmente, con grande semplicità, mi spiegò perché. Avevamo buoni rapporti, anche se sapevo che il giorno dopo l’acquisto del Corriere avrebbe cambiato il direttore. «Vede — mi disse — le grandi industrie in Italia hanno un giornale col quale possono fare piaceri agli uomini politici, e poi gli uomini politici ricambiano. La Montedison non ha giornali: deve procurarseli». […]

La bulimia di Cefis giustificava il sospetto che non mirasse soltanto a qualche scambio di favori col partito di maggioranza: forse aveva altre ambizioni. Quando all’improvviso decise di lasciare l’Italia, Enrico Cuccia (uno dei suoi estimatori) gli disse: «Ma Lei non doveva fare la dittatura?», e non sappiamo fino a che punto scherzasse. Quel che comunque è rimasto è l’intreccio fra industria, finanza, editoria: brutta peculiarità italiana […]
C’è rimedio? Tutte le speranze devono essere riposte nella coscienza professionale di noi giornalisti: nel rifiuto di essere adoperati come strumento di lotta, al servizio del potente di turno”.