Referendum Bologna: chi vota A, chi vota B e perché interessa tutti

di Antonio Sansonetti
Pubblicato il 22 Maggio 2013 - 08:46 OLTRE 6 MESI FA
Referendum Bologna: chi vota A, chi vota B e perché interessa tutti

Romano Prodi (che vota B) con Francesco Guccini (favorevole alla A)

BOLOGNA – Domenica 26 maggio a Bologna c’è un referendum consultivo sui finanziamenti agli asili privati, dette “scuole d’infanzia paritarie private”. I cittadini che si andranno a votare (apertura seggi ore 8.00, chiusura ore 22.00) dovranno rispondere A o B a questa domanda:

“Quale, fra le seguenti proposte di utilizzo delle risorse finanziarie comunali, indicate in euro 955.500 + 100.000 per l’anno scolastico 2011-2012 nella deliberazione di Consiglio Comunale PG. N. 203732/2011 approvata il 27/09/2011 secondo il vigente sistema delle convenzioni con le scuole d’infanzia paritarie a gestione privata, ritieni più idonea per assicurare il diritto all’istruzione delle bambine e dei bambini che domandano di accedere alla scuola dell’infanzia?”

a) utilizzarle per le scuole comunali e statali

b) utilizzarle per le scuole paritarie private

Il referendum è consultivo e non abrogativo: significa che, se vincesse l’opzione A, il sistema integrato di finanziamento alle scuole private in vigore a Bologna non verrebbe immediatamente abolito. Si darebbe un indirizzo politico che poi l’attuale giunta dovrebbe seguire. In ballo c’è una cifra intorno al milione di euro all’anno: bisogna decidere se utilizzarla per finanziare solo scuole pubbliche o se destinarla alle scuole paritarie private così come il Comune di Bologna fa dal 1994.

Le ragioni della A. Il comitato promotore del referendum è favorevole all’opzione A, ovvero all’utilizzo di quel milione di euro esclusivamente per strutture comunali e statali, per aprire nuove classi e sezioni in scuole pubbliche. Fanno riferimento all’articolo 33 (si sono dati come nome proprio Comitato art. 33) della Costituzione, nella parte in cui recita:

“La Repubblica detta le norme generali sull’istruzione ed istituisce scuole statali per tutti gli ordini e gradi.

Enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione, senza oneri per lo Stato“.

Secondo i promotori, la crisi ha portato a ripetuti tagli all’Istruzione, ma mai sono stati toccati gli stanziamenti per le scuole private. Una scelta che contraddice quanto prescrive l’articolo 33 della Costituzione.

A settembre 2012 sono stati 423 i bambini rimasti senza posto nelle scuole d’infanzia comunali e statali di Bologna. Il Comune ci ha messo una toppa aumentando gli alunni per classe e aprendo nuove sezioni part-time. Ma sono rimasti in 103 i bambini esclusi dalla scuola dell’infanzia pubblica. Il Comitato pro-A sostiene che con il milione di euro stanziato per le scuole paritarie private nel 2011 si sarebbero potuti accogliere, a settembre 2012, 330 bimbi in più nella scuola pubblica.

I bambini iscritti alle scuole paritarie private a Bologna sono 1.736. Prima che entrasse in vigore il finanziamento alle private, nel 1995, gli iscritti erano 1.760. Per i promotori del referendum significa che un minore costo delle rette non cambia le intenzioni di un genitore che vuole mandare il proprio figlio a un asilo privato. Quindi che non è vero che togliendo quel milione di euro agli asili privati 1.700 bambini andrebbero automaticamente ad ingrossare le liste d’attesa per gli asili pubblici.

Tranne una, 26 delle 27 scuole d’infanzia paritarie private a Bologna sono cattoliche. Per i sostenitori dell’opzione A dimostra che quelle scuole non sono per tutti i bambini: solo per i figli di genitori con un certo reddito e una certa religione. Mentre la scuola pubblica è aperta a tutti per legge, laica e gratuita.

Secondo i promotori per sopperire al mancato stanziamento del Comune per le scuole d’infanzia private non ci sarebbe neanche bisogno di alzare le rette. Per trovare i soldi che mancano potrebbero rivolgersi a un finanziatore più solido dello Stato: la Chiesa, già aiutata dallo Stato con l’8 per mille. In più la Curia bolognese dispone di un patrimonio di circa 1.200 immobili in città, e dei 22 milioni di euro dell’eredità FAAC.

Le ragioni della B. Per il comitato “B come Bologna” e i sottoscrittori dell’appello “+ scuole x tutti”, il referendum – che riguarda solo gli asili e le scuole materne, non elementari, medie e superiori – è solo ideologico e va a minare un sistema, quello bolognese “integrato” fra pubblico e privato, che ha portato la città ad avere alti standard di qualità nell’offerta educativa.

Il comitato pro-B afferma che il Comune di Bologna investe 127 milioni di euro in favore della scuola pubblica, pari ad 1/4 del suo bilancio. Di questi fondi 38 milioni sono destinati alle scuole d’infanzia pubbliche, che accolgono 5.137 bimbi, e 1.055.500 di euro (pari al 0,8% del totale e al 2,7% della cifra investita negli asili) sono destinati alle scuole paritarie convenzionate che accolgono oggi 1.736 bambini.

Quei soldi – per i sostenitori dell’opzione B – servono a garantire lo stesso livello di qualità in tutte le scuole e a garantire l’accesso agli asili privati anche alle famiglie a basso reddito.

Se passasse l’opzione A, sostengono i fautori della B, buona parte dei genitori di quei 1.736 bambini non potrebbe permettersi le rette che le scuole paritarie private si troverebbero costrette ad alzare. Si ingrosserebbero così le liste d’attesa.

Da una parte, secondo i sostenitori dell’opzione B, c’è il rischio che 1.736 bambini si trovino senza scuola, dall’altra, con quel milione risparmiato, si troverebbe posto solo per altri 150 bambini nelle strutture pubbliche.

Secondo il comitato “B come Bologna”, è falso presentare questa consultazione come un “referendum sulla scuola pubblica”. Perché il Comune di Bologna, impegnato direttamente nella gestione del 60% degli asili e delle scuole materne, è il secondo in Italia per percentuale di scuole d’infanzia comunali. Mentre la percentuale dei privati, in questo settore, è del 20%, una delle più basse d’Italia.

Schieramenti: chi sta con la A. Il referendum è stato promosso da un comitato di cittadini che ha scelto Stefano Rodotà come presidente onorario. Con l’opzione A si sono poi schierati partiti come Sel, M5S, Rifondazione, Verdi, organizzazioni sindacali come la Fiom, la Flc-Cgil e i sindacati di base, Salvatore Settis, Luciano Gallino, Gino Strada, Margherita Hack, Dario Fo, Marco Revelli, Paolo Flores D’Arcais, scrittori come i Wu Ming, Andrea Camilleri e Paolo Nori, giornalisti come Michele Serra e Corrado Augias, la curva del Bologna. In ultimo Francesco Guccini:

«Entrare alla scuola pubblica, ove si opera senza discriminazioni e senza indirizzi confessionali, è il primo passo di ogni individuo che voglia imparare l’alterità e la condivisione“, continua, “è il primo passo di ogni essere umano per diventare uomo, per diventare donna… Insomma, non posso non fare mia la lezione di Piero Calamandrei, quella contenuta nel suo celebre ‘Discorso in difesa della scuola nazionale’, e da quelle parole traggo il mio augurio e il mio saluto per tutti voi: “Bisogna, amici, continuare a difendere nelle scuole la Resistenza e la continuità della coscienza morale».

Chi sta con la B. Il sindaco Virginio Merola e tutta la giunta comunale, il Pd, il Pdl, la Lega Nord, l’Udc, la Curia, Comunione e Liberazione, la Cisl, Confcooperative, il presidente della Cei, cardinale Angelo Bagnasco, giornalisti come Antonio Polito e Oscar Giannino. In ultimo Romano Prodi:

«Dico subito che, a mio parere, il referendum si doveva evitare perché apre in modo improprio un dibattito che va oltre i ristretti limiti del quesito stesso – continua – il mio voto è motivato da una semplice ragione di buon senso: perché bocciare un accordo che ha funzionato bene per tantissimi anni e che, tutto sommato, ha permesso , con un modesto impiego di mezzi, di ampliare almeno un po’ il numero dei bambini ammessi alla scuola dell’infanzia e ha impedito dannose contrapposizioni? Ritengo che sia un accordo di interesse generale».

Perché il voto di Bologna è importante. Probabilmente hanno ragione quelli del comitato “B come Bologna”: il referendum è ideologico e questo ne motiva il suo interesse nazionale. In ballo c’è il valore simbolico della partita fra pubblico e privato e il ruolo di Bologna come laboratorio per la sinistra di governo, per i mutamenti e per le spaccature interne a quella sinistra.

La città, sin dal dopoguerra governata ininterrottamente dal Pci – tranne la breve parentesi 1999-2004 di Giorgio Guazzaloca – , è stata usata dal più importante partito della sinistra italiana come esempio: il modello-Bologna, il modello emiliano. “Ecco cosa avremmo fatto se avessimo governato”. Una repubblica socialdemocratica in miniatura, con un alto livello di servizi nella scuola, negli ospedali, nel trasporto pubblico locale, che ancora fino alla metà degli anni 80 era gratuito. Nel 1984 si tenne l’ultimo referendum cittadino che abbia passato il quorum: quello sulla pedonalizzazione del centro storico, per la quale votò a favore il 69,9% dei bolognesi.

Poi quel partito, che proprio a Bologna (“la svolta della Bolognina”) cambiò nome in Pds, volle cambiare modello. Sotto le due Torri, all’ombra della Quercia e con la benedizione delle cooperative, iniziò un lento slittamento dal pubblico verso il privato.

A Bologna erano blairiani prima di Tony Blair. Nei primi anni 90, uno degli interpreti di questa “rivoluzione lib-lab” dentro il partitone rosso fu il sindaco Walter Vitali, per il quale ai tempi molti pronosticavano un futuro da segretario, da ministro o addirittura da premier. Un sintomo dei tempi fu un altro referendum, quello che si tenne nel 1997 contro la privatizzazione della farmacia comunale. Non raggiunse il quorum.

Mentre il primo governo Berlusconi spaccava il Paese sulla promessa poi non mantenuta di un finanziamento pubblico alle scuole private, Vitali con una legge datata 1994 varava per primo un “sistema integrato” fra scuola pubblica e “paritarie” private sostenute anche con fondi statali e comunali. L’Emilia Romagna con la legge 52 del 1995 riconobbe e fece proprio quel “sistema integrato”. Presidente di Regione all’epoca: Pier Luigi Bersani.

Quel sistema pubblico-privato aspettò poi cinque anni per essere esteso a tutta Italia. Lo fece un governo di centrodestra? No, ci pensò il centrosinistra, con un decreto legge del 1999 firmato dal ministro dell’Istruzione Luigi Berlinguer, poi convertito in legge nel 2000 dal governo D’Alema.

A Bologna, nel frattempo, era nato l’Ulivo, la coalizione fra cattolici ex Dc e tutta la sinistra. Il candidato Romano Prodi, reggiano ma bolognese d’adozione, vinse le elezioni del 1996. Un ex democristiano, già ministro con Andreotti e presidente dell’Iri voluto da De Mita, che fece esultare molti ex comunisti: “Abbiamo vinto”. Sul palco di Piazza Maggiore Francesco Guccini festeggiò insieme a 50 mila bolognesi Prodi vittorioso.

La notte di domenica, vincesse l’opzione A, sarebbe la prima inversione di tendenza dopo un quarto di secolo della linea “meno pubblico, più privato” e “laici, ma anche cattolici”. Se invece vincesse la B sarebbe la conferma che quella sperimentata per prima a Bologna è la direzione giusta. Comunque vada, Prodi e Guccini non avranno niente da festeggiare insieme.