Ponte Morandi, la jella di modellini, torte e parate, c’è amianto in Pila 8, un anno di lavori in più

di Franco Manzitti
Pubblicato il 18 Marzo 2019 - 20:51| Aggiornato il 26 Luglio 2019 OLTRE 6 MESI FA

di Franco Manzitti
GENOVA – Pila 8, in mezzo al cadavere del ponte, ai suoi pezzi in piedi e ai suoi pezzi “vuoti”, circondata, avvolta, misurata come se fosse una vecchia mummia da conservare e invece doveva essere da polverizzare con le microcariche di esplosivo, piazzate come confetti nella sua altezza di 55 metri, dentro ai suoi buchi di manufatto corroso dal vento, dal salino.

Booom: aspettano tutti l’esplosione, ma l’esplosione non si fa e, quindi, è inutile questo trattenere il respiro, fissare la pila 8, sospesa lì in mezzo, aspettando che sparisca in una nuvola di fumo, un rumore soffocato e il pilone che si affloscia come un burattino rincagnato su se stesso e la polvere che si posa intorno e l’eco che rimbalza avanti e indietro per la valle, in mezzo al cantiere, dove sembrano formiche a lavorare, come in quelle immagini infantili di Gulliver, legato a terra da mille, inutili, legacci e il suo corpo disteso, imprigionato, ma pronto a liberarsi.

I lillipuziani sono gli operai e i tecnici con i caschi colorati che si affannano intorno sulle gru, sotto le gru, tra gli autocarri e sopra il ponte, sospesi nei suoi residui interrotti.

Gulliver è lui, il ponte moribondo che si disfa.

Questa esplosione doveva essere il simbolo della distruzione, istantanea, rumorosa, tassativa, perentoria, mentre fino ad oggi lo “smontaggio” era come una moviola lenta, più che lenta, le travi che scendevano per ore verso terra, il “timelapse”, effetto visivo riassuntivo della caduta, trasmesso da tv e video di questa sequenza infinita, il pezzo del Morandi che sparisce lentamente, si allinea in basso e cala, cala, quasi in un movimento religioso.

Ti smonto, ma è come se rimanesse la memoria di quello che eri, tutti i tuoi pezzi allineati, ora sono uno pieno e l’altro vuoto e se guardi per lungo il ponte maledetto alla fine non lo vedi più, nè da sotto, né di lato, né da lontano, né dalla collina di Coronata, che tante volte ci sei salito a guardare in basso, a agghiacciarti nel misurare il buco del disastro in mezzo, cui ora si aggiungono gli altri pezzi smontati e il Morandi moribondo è come un tratteggio gigantesco, in mezzo alla valle e già ti chiedi cosa sarà più in là, quando spariranno le case di sotto e il loro tetto-ponte, allora sì che la ferita, la morte definitiva sarà decretata.

Perchè oggi ti puoi ancora immaginare che il ponte ci sia, in qualche modo, ferito a morte, ma in piedi, nelle campate verso Levante, nelle evoluzioni delle connessioni con il casello autostradale di Genova Ovest, nella discesa della Autostrada A7….

Per questo aspettavi il boom, l’esplosione inizialmente prevista il 6 marzo e poi rimandata, una, due ,tre volte, come lo sparo definitivo, la sentenza!

Il ponte Morandi non c’è più, ora sotto con quello nuovo, dai che negli stabilimenti della Fincantieri stanno sfornando il “primo pezzo” di acciaio, sarà lungo un centinaio di metri, liscio come lo scafo di una nave, in fondo è così che se lo è immaginato Renzo Piano e così lo hanno costruito nello stabilimento di Valeggio sul Mincio in provincia di Verona, stabilimento Infrastrutture, come un pezzo di nave.

Il presidente Conte è andato anche lì, in uno sventolio di bandiere a celebrare il primo pezzo, l’inaugurazione dello stabilimento e anche la scelta governativa di affidare la ricostruzione a un’azienda di Stato, Fincantieri , più Italferr e con il potente Salini, socio privato. Tanto entusiasta il premier da commettere l’imperdonabile gaffe del taglio della torta fatta a misura di ponte, lui e i leader di Fincantieri, Salini e Italferr a celebrare il nuovo cantiere sfornaponti con una mega torta di panna. Alla memoria delle vittime, della tragedia che ancora incombe su Genova. E a poco sono servite le spiegazioni che quel ricevimento con torta di panna era dedicato al nuovo stabilimento.

I modellini del ponte “nuovo” non portano fortuna. Il primo modellino si era spezzato nelle mani di Giovanni Castellucci, l’ad di Autostrade, il giorno della prima presentazione del primo progetto regalato da Renzo Piano, presenti Fincantieri e il presidente della Regione Liguria, Giovanni Toti. Mal ne incolse allo stesso Toti, non più promosso commissario alla ricostruzione e allo stesso Castellucci, che resta nel mirino della Procura di Genova.

Nel giorno del taglio della torta a Valeggio sul Mincio, provincia di Mantova, tra selfie e battimani, i tecnici a Genova avevano già sentenziato: amianto sulla pila 8, pulviscolo di amianto nel vecchio corpo della pila moribonda, tracce di veleno nell’aria se si spara il botto, quantità minime, ma è amianto, il pericolo pubblico numero uno e allora si rimanda.

Bisogna calcolare, prendere le misure, immaginare cosa succederebbe se quel veleno volasse per l’ aria della valle.

Agli abitanti sofferenti di questa valle, di questi quartieri genovesi nel mirino da mesi e mesi, soffocati dal traffico, divisi dal resto della città, danneggiati, ci manca l’amianto!

Meglio misurare, meglio immaginare una protezione, magari di “teli” d’ acqua, sparati insieme al botto o addirittura, meglio smontare pezzo per pezzo con la moviola, il rallentatore. Il “lipse time”….

E alla fine il verdetto definitivo che è come una fucilata nei piani ambizioni: niente esplosivo per la pila 8. Troppo pericoloso, quella pila, che sta oramai quasi come un fungo nel lato occidentale del ponte aggredito, bisogna smontarla “meccanicamente”, pezzo per pezzo.

Hanno già prenotato le gru giganti che arrivano via mare nel porto di Genova e che trasporteranno, pezzo per pezzo, con 80 trasporti eccezionali dalle banchine a sotto il ponte. Le metteranno insieme come in un grande gioco del lego, con questi giganti che salgono fino a cento metri di altezza e che invaderanno l’area dell’oramai fu Morandi, che tanto fu non è, perchè resiste, a porzioni, a tratti, a sezioni separate, nella grande valle abituata al ronzio del suo traffico, ora a questo lavorio quasi frenetico, notte e giorno, sotto le sue fu arcate.

Saliranno in alto, smonteranno la pila 8 e poi?

La sentenza sulla presenza dell’amianto è un verdetto molto pesante perchè condiziona tutta l’opera di demolizione che prevedeva, dopo la pila 8, l’esplosione delle pila 10 e 11, quelle con le case sfrattate” sotto, delle case stesse, otto palazzi dove abitavano 700 persone e degli altri pezzi di ponte verso il casello di Genova Ovest, uno dei più trafficati d’Italia.

Nessuno può escludere che l’amianto sia ovunque. Le relazioni allarmate dei Vigili del Fuoco, che lavorano da mesi arrampicati sul ponte, lo dicono già, denunciando i rischi corsi dai propri coraggiosi uomini.

Se non si può usare il botto come si fa? Le pile 10 e 11 sono strallate, arrivano a quasi cento metri di altezza: che lavoro potrebbe essere smontarle senza l’esplosivo? In un silenzio ufficiale impressionante le ipotesi che filtrano fanno prevedere un clamoroso allungamento dei tempi e dei costi.

Altro che finire in pochi mesi, entro l’estate, lo smontaggio, mentre incominciavano le operazioni di costruzione. Smontare con le gru vorrebbe dire lavorare per altri 8-12 mesi, allungare tutta l’operazioine, stravolgere i piani previsionali, ottimisticamete straannunciati e riannunciati con la previsione, quasi trionfale, che nell’aprile del 2020 il ponte nuovo di Renzo Piano e C sarebbe percorribile e addirittura per il prossimo Natale, quello del 2019, l’impalcato sarebbe in piedi e l’orizzonte della valle occupato dalla nuova vision, diventa realtà.

Inutile cercare conferme allo slittamento dei piani. Lo staff del super commissario, il sindaco Marco Bucci, non è un esempio sfolgorante di trasparenza.

Filtrano con molti dettagli le notizie sull’arrivo delle grandi gru, una specie di grande sbarco sulle banchine genovesi, come dire “arrivano i nostri”. E si capisce: l’operazione sulla pila 8, modificata dall’esplosivo allo smontaggio “ a mano”, implica uno slittamento dei tempi contenuto in sette, otto giorni, anche se ci vuole una settimana per montare i giganti.

Ma nessuno dice che cosa vorrà dire aggredire il resto del ponte senza la “soluzione finale” e spettacolare della dinamite.

Abituato al suo linguaggio efficientista il sindaco- commissario ha sempre sfornato, di fronte alle difficoltà, il “piano B”. Qual è ora il “piano B” della demolizione e cosa vuol dire un allungamento dei tempi per i costi della demolizione, previsti in una cifra di 18 milioni e per le penali che il consorzio delle demolizioni con il testa la ditta “Fagioli” è impiccato a pagare per ogni mese di ritardo?

Si incomincia a capire perchè la “Vernazza”, impresa di demolizione tra le prime in italia, si era sfilata all’ultimo momento dall’impresa, facendo capire che aveva dubbi proprio sui tempi stretti, strettissimi dei lavori che prevedevano di lasciare il campo a Fincantieri, Italferr e Salini entro l’estate.

Intanto era tornato ancora una volta a Genova il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, per la quinta volta sotto il ponte a confermare e tranquilizzare, forse un po’ improvvidamente: c’è l’amianto in quantità minima, non pericolosa, ma bisogna controllare, tutto il mondo ci guarda, dobbiamo fare le cose per bene. Eccolo di nuovo il presidente nel tendone sotto il ponte, con gli sfollati della zona arancione, che ancora devono avere i risarcimenti e vogliono garanzie.

Questa volta non lo applaudono, ma non lo fischiano neppure il premier, che proprio nel giorno più acuto della minacciata crisi di governo sulla Tav, se ne sta qua, bello azzimato, con la cravatta di Genova sul vestito impeccabile, a tranquilizzare i genovesi.

Al tavolo degli sfollati e dei residenti, che aspettano un indenizzo per gli immani danni già subiti e degli altri che ancora arriveranno con il megacantiere in costruzione, sotto il tendone, sembra oramai quasi uno di casa, con la signora Gina seduta davanti, il comitato che riceve rassicurazioni e come fai a non tranquillizzarti se il presidente del Consiglio viene qua per cinque volte?

Siamo veramente con questo ponte da rifare in mezzo alla città un esempio e non può che essere così se un giornale come il New York Times usa la sua prima pagina, dopo tanti mesi, per ritornare sul ponte genovese e “processare” la politica privatistica della arcinota famiglia Benetton, socio di maggioranza di Autostrade, che previlegiava i profitti del suo business nelle infrastrutture alle sicurezza dei viaggiatori che pagavano il biglietto?

Il mondo ci guarda – dice Conte un po’ sussiegoso, un po’ orgoglioso, un po’ sottinteso per l’atteggiamento che il suo governo ha rispetto al tema della concessione, che Autostrade ancora detiene, anche su questo pezzo di strada, sui mozziconi in piedi, su quelli caduti, su quelli smontati, tutti, però, nel potere assoluto e universale del supercommissario, il sindaco genovese Marco Bucci.

Insomma una concessione congelata.

Via quella concessione, avevano sentenziato subito i ministri e il vicepremier Luigi Di Maio e anche se sono passati quasi sette mesi nulla è cambiato, ma nessuno parla più.

Continuano a parlare, invece, sempre di più gli atti giudiziari, perchè la montagna di carte dell’inchiesta della magistratura genovese partorisce documenti scottanti e una pioggia di nuovi avvisi di garanzia, di indagati, di sospettati, di controllori che non controllavano.

Tremano funzionari, dirigenti, appunto controllori infedeli, consiglieri di amministrazione delle Autostrade spa, alti dirigenti del Ministero dei Trasporti, poi delle Infrastrutture e prima dei Lavori Pubblici, consulenti, dipendenti del Provveditorato delle Opere pubbliche, responsabili di tronco, che avevano il compito di controllare, riferire, stilare rapporti.

E così gli indagati sono diventati 75 in tutto, a incominciare da Giovanni Castellucci, l’amministratore delegato di Autostrade e continuando in giù per gerarchie e carriere.

Un maxi processo incomincia a configurarsi, che non avrà solo una dimensione genovese, contro quelli che non si muovevano decisamente dopo i report sullo stato del ponte Morandi, ma si allargherà anche ad altre opere pubbliche italiane, che le Autostrade dovevano conservare come, per esempio, il ponte Paolillo, vicino a Canossa: una società del gruppo, la Spea Engeneereng, doveva controllare e non lo ha fatto e ora quella lacuna spunta in una intercettazione della Guardia di Finanza di Genova. E l’inchiesta diventa una piovra che allunga i suoi tentacoli.

Così ora sono le indagini a gettare ponti in altre direzioni, anche inimmaginabili nella loro estensione.

Che l’inchiesta sia un colossal non lo provano solo il lavorio minuzioso della Procura, lo stretto contatto tra i magistrati e la struttura del commissario per ogni mossa intorno al ponte, ma anche il salto all’indietro nel tempo, che chiarisce a quando risalgono gli accertamenti sui controlli.

Gli inquirenti, tornando indietro, sono arrivati al 1992, vuole dire a 27 anni prima del crollo e stanno circoscrivendo gli accertamenti agli atti, alle relazioni, ai rapporti che riguardavano le strutture del Morandi al tempo immediatameente precedente quel 1993 nel quale furono compiuti i lavori importanti sulla pila 11, con il “rinforzo” degli stralli e dei tiranti relativi a quel punto.

Già allora, anno 1992, si sapeva che la pila 9, quella crollata facendo 43 vittime e la 10 “stavano male”, avevano sicuramente bisogno dello stesso trattamento di rinforzo, il famoso “retrofitting”, poi realizzato sulla pila 11.

Perchè ci si fermò, perchè sono passati 27 anni e quei rapporti allarmanti sono rimasti come un urlo nel vuoto del viadotto, mentre ogni anno, ogni mese, i cantieri si succedevano sul ponte, in modo quasi frenetico nelle ultime stagioni e in particolare in quella finale, precedente al crollo?

Probabilmente la grande inchiesta punta questo obiettivo, quella domanda e “mira” i rapporti che deviarono gli interventi dopo il 1993, cercando i responsabili del dirottamento nei diversi uffici, nei gradi di responsabilità che si sono succeduti nella Spea, nella Società autostrada, al Ministero, negli uffici del Tronco, dove c’era chi doveva verificare e riferire tutto.

Tra i 53 nuovi indagati ci sono anche quelli che devono rispondere di falso per essere intervenuti sul tenore dei rapporti, come se avessero avuto l’ordine di modificare, ridurre l’allarme, attutirlo e non solo per il Morandi malato.

E così si intravvede come una grande zona grigia di responsabili e irresponsabili che si affannavano in diversi ruoli intorno a quel ponte e lo “curavano” e decidevano come e quando intervenire e si passavano le relazioni, i rapporti e probabilmente li “modulavano”, a seconda anche del momento, dei tempi, dei rinnovi delle concessioni, degli equilibri di gestione di una grande macchina come quella delle Autostrade.

Se guardi tutto questo dall’alto, al settimo mese di sofferenza, con il ponte che non sai più come sarà demolito, con la valle sotto che continua a soffrire, ma anche a sussultare di reazioni, un po’ furibonde, un po’ rassegnate, fai fatica a trovare una diagnosi precisa di una città ancora spezzata, ma un po’ riannodata con i fili esili, ma resistenti di nuove vie di comunicazioni, che misura cadute importanti nei suoi traffici, ma anche impensabili resistenze, uno spirito di coesione forte, non interamente condiviso, ma che diventa quasi una bandiera proprio di “resistenza”.

Ecco, forse bisognerebbe buttarla in musica, come ha fatto, proprio partendo dal ponte, Paolo Kessisoglu, genovese, vera star tv, artista comico, musicista e non solo, socio di Luca Bizzarri che nell’impeto della tragedia, quel 14 agosto, lontano com’era da Genova, ha scritto quasi piangendo, una canzone intitolata “C’è da fare” e poi l’ha fatta cantare da ben 25 grandi artisti della musica italiana, l’ha incisa, l’ha fatta diventare un best seller canoro. “C’ è da fare” è diventata l’inno del ponte e della città spezzata da salvare.

Gli hanno prestato la voce bigs come Annalisa, Arisa, Mannoia, Gianni Morandi, Giorgia, Gino Paoli, Massimo Ranieri, Mario Biondi, Mauro Pagani, Ron, Max Gazzè….. E non vorremmo dimenticare Giuliano Sangiorgi, Izi, Boosta, Luca Carboni, Nek, Malika Ayane, Gualazzi, Nina Zilli, Simona Molinari, Joan Thiele, J-Ax.

Ognuno canta un verso e Ivano Fossati, vera icona genovese, ritirato dal palcoscenico, tornato per questo in scena, recita una frase. E’ un testo molto ritmato e descrittivo di quel carattere zeneise che la tragedia del ponte ha snudato nei suoi aspetti “forti”. “Genova città da capire, Genova aria da bere, Genova nuvole e sale, e vento a imperversare. Genova da perdere la via, solo vicoli e nicchie che alla fine dei Giovi ci si stappa le orecchie, quando finite le curve si schiaccia il pedale………” , dice il testo.

Una volta quando “si schiacciava il pedale” dopo le curve della A7 in discesa da Milano, lasciando alle spalle i Giovi, si scorgeva il ponte Morandi, nella sua grandiosità, alla destra del guidatore. Ora lo stanno smontando e di preparano a farne un altro nuovo, di acciaio luccicante.

Insomma “ C’è da fare” e ora con l’incubo amianto probabilmente molto di più di quanto era stato un po’ troppo ottimisticamente previsto.