Ponte Morandi, la lezione dimenticata, Toninelli all’angolo, in Italia 16 mila ponti in pericolo

Ponte Morandi, Genova, tre anni dopo il crollo. I parenti delle 43 vittime possono continuare a piangere tre anni dopo. E anche a dispiacersi perché il premier Mario Draghi non è venuto a celebrare l’anniversario di una tragedia che lui stesso ha definito come “il crollo di tutte le certezze di una vita civile”, in un comunicato di solidarietà molto scarno e anche un po’ freddo nei toni, non certo gradito dai genovesi.

Gli osservatori possono continuare a invocare la giustizia dei processi che è in marcia. Ma avrà ancora tempi lunghi e non soddisfacenti per chi, appunto, piange da tre anni.

Augurandosi che qualcuno alla fine paghi e la condanna non diventi indeterminata e generalizzata.

I più polemici, e anche i più sensibili, possono continuare a alzare alte proteste per quel risarcimento di 9 miliardi da pagare alle concessionarie autostradali “revocate” per quel disastro. E in primis alle società della famiglia Benetton. Su cui oramai grava una specie di damnatio assoluta, che segna la loro storia in modo indelebile.

Il Ponte Morandi fu subito ricostruito e sostituito con il Ponte san Giorgio. Grazie al genio di Renzo Piano, al pragmatismo del sindaco Marco Bucci e a un regime commissariale di eccezionale efficacia. Ma la più grande lezione che lascia la vicenda del crollo è un altra, ben più grande ancora, se non sul piano del dolore e dei sentimenti. Ma su quello dei danni che una rete autostradale ha subito non solo nel suo tragico perimetro genovese e ligure. Più in generale in Italia.

E si parla non certo solo di autostrade date in concessione a questo o a quell’imprenditore. Ma anche delle strade che formano il reticolo di collegamenti in tutto il Paese. E che comprendono almeno 800 mila chilometri di distanze. Esse riguardano, oltre alla rete autostradale, almeno 13 mila enti pubblici di tutta Italia, responsabili delle opere pubbliche. Delle quali sono titolari Comuni, Provincie, città metropolitane ed altri enti.

Quando è crollato il ponte Morandi…

Si spezzò come un grissino, uccidendo solo 43 persone. Che ne avrebbe potuto colpire a morte anche migliaia. Se quel ponte fosse stato, come era sempre, occupato da code lunghissime. E se il crak fosse avvenuto sopra le case che poi furono sgombrate di corsa, vendute e in parte abbattute. Trasferendo altrove definitivamente circa 800 persone in una transumanza, ovviamente adeguatamente risarcita, con i soldi della legge speciale. Quando è crollato il Morandi, lo Stato italiano, allora rappresentato dal governo Conte 1, si era mosso subito.

 Ministro dei Trasporti era il super ambientalista Danilo Toninelli. Uno dei più accaniti oppositori della Gronda, tangenziale genovese che, se costruita in tempo avrebbe salvato il Morandi. Quel Governo, guida grillino-leghista, aveva squadernato un ipotetico maxi archivio delle opere pubbliche italiane da salvaguardare, individuabili attraverso una specie di codice fiscale delle opere. Con una sigla identificativa denominata IOP (Identificativo Opere Pubbliche), come ha ricordato bene Daniele Martini, in una grande inchiesta pubblicata sul quotidiano “Domani”.

L’allarme di Toninelli

L’allarme rosso era, quindi, subito suonato per 150 mila ponti costruiti in Italia, cifra impressionante alla quale aggiungere le gallerie e gli altri viadotti.

In che stato erano? Alla luce vivida e choccante della tragedia di Genova, l’esigenza di capire velocemente come era lo stato di opere, prevalentemente costruite nel Dopoguerra (ma anche prima). E di definirne lo stato di conservazione e di manutenzione, era diventata una vera e propria emergenza, quasi esplosiva.

Anche se nei primi giorni, con il Paese sotto choc, pareva che da controllare fossero soprattutto le opere costruite da Riccardo Morandi. Noto per le sue soluzioni ardite e soprattutto trattate con sistemi nuovi, senza riscontri nella durata, come il famoso cemento pre-compresso, inventato sul grande ponte di Genova.

Altro che le dieci, quindici grandi opere firmate Morandi e sparse in Italia ed anche all’estero!

L’emergenza coinvolgeva il Paese nel suo complesso. Da lì sono nate commissioni, piani, progetti per mettere in linea di sicurezza un sistema abbandonato praticamente a se stesso. Opera immane, che la tragedia, i morti, i danni, la rete infrastrutturale spezzata in un nodo chiave, rendeva impellente.

Il modello Genova, una formula abbandonata

Ma sono passati tre anni, hanno suturato la ferita del Morandi con il san Giorgio, con il record di tempi, con il cosidetto “modello Genova”, attraverso il quale riempirsi la bocca.

E il resto? Solo a Roma ci sono un migliaio di ponti da controllare e sui quali magari intervenire. E poi se in qualche modo le Autostrade potevano essere abbastanza rapide nel fornire risposte sulle condizioni della propria rete, anche grazie alle società concessionarie, come fare per tutto il resto?

Oltre al codice IOP doveva entrate in campo ANSFISA, Agenzia nazionale per la sicurezza delle ferrovie e delle infrastrutture stradali e autostradali, alla quale l’allora ministro Toninelli doveva suonare la sveglia.

Si sa come è finito Toninelli. L ’Ansfisa ha imboccato così un bel binario morto, tanto per restare in tema di comunicazioni. Non solo questa agenzia fantasma ma anche l’altra, che doveva costruire l’archivio delle opere da controllare, hanno poi anche subito l’imprescindibile balletto di presidenti e direttori generali.

In Italia succede sempre così

Cambiano i governi, i ministri, i capigabinetto e la rumba dello spoil system ha travolto anche queste urgenti strumenti di salvaguardia del sistema, le cui crepe erano drammaticamente evidenti.

Venivamo in realtà da anni, decenni, di non controlli o di controlli finti, se non addirittura falsificati, che nel caso di Autostrade poi erano addirittura passati attraverso il cambio epocale della privatizzazione, anni 90, dal quale tutto è cambiato. In peggio.

E’ cambiato radicalmente il rapporto tra concedente e concessionario, tra lo Stato e il gestore, che da privato ha subito avuto un solo obiettivo: i profitti, la crescita dei fatturati, la razionalizzazione dei costi. Al diavolo la sicurezza.

Di fatto il concessionario è diventato “il padrone” dell’autostrada e ha deciso per conto suo, con un procedura “fai da te” che ha fatto a pezzi il principio dell’istituto della concessione, regolato dal diritto amministrativo proprio per delimitare lo spazio di manovra di chi riceve dallo Stato un bene con funzione pubblica.

Cosa è successo dopo l’esplosione del caso Morandi

Come sia finita con l’esplosione del caso Morandi, le conseguenti inchieste giudiziarie e poi l’improvviso e totalizzante decisione di intervenire massicciamente, partendo dalla Liguria con cantieri paralizzanti a ogni metro di concessione, lo sappiamo.

Anche se l’operazione messa in sicurezza è appena partita con le incertezze e i ritardi immaginabili in una operazione, appunto, immane.

La colpevole numero uno del caso Morandi, la società ASPI, defenestrato il suo ad Giovanni Castellucci, un super manager che prima che di asfalto si occupava di Pasta Barilla, è nel tornado di processi e revoche (ma anche di maxirisarcimenti). Le altre concessionarie sono in mano alla lobby di rappresentanza AISCAT, da anni governata da un personaggio potentissimo, molto conosciuto in tutto il mondo economico italiano e sopratutto in quello ligure piemontese, Fabrizio Palenzona, 67 anni. Ex giovane presidente della Provincia di Alessandria, diventato un vero leader economico, a capo di banche, associazioni, figura di grande stazza, tra Unicredit, Mediobanca, Gemina, aeroporti e autostrade. Praticamente un quasi genovese con solide connessioni nel mondo professionale ligure, essendo nato a Novi Ligure.

La lobby dei concessionari

Ma anche il ruolo di questo importantissimo signore è in bilico dopo decenni di governo del sistema autostradale. In settembre la lobby dei concessionari cambierà leader. E chissà cosa succederà di tutta la politica autostradale, sventagliata dalle inchieste post Morandi e dagli imput che il governo dovrebbe finalmente dare a tutto il sistema.

Sul fronte Anas la partita è ancora più complessa. Perché dopo i decenni di attenzione allo stato delle strade, si è piombati in un clima nel quale le ispezioni dei cosiddetti controllori sono passate da un metodo serio a un “passa e vai”. Con geometri e tecnici di alto profilo che facevano valutazioni all’acqua di rose, promuovendo ponti, gallerie, tratti stradali con una semplice occhiata.

Con il risultato che oggi quei 16.500 ponti e viadotti delle strade italiane sono sicuramente in pericolo, o compromessi. Come qualche eclatante episodio dimostra. Si veda il tracollo devastante di quel ponte tra Liguria e Toscana, ad Albiano, nella val di Magra che solo per miracolo non ha ucciso nessuno. E che è ancora oggi giace tra le macerie in attesa di ricostruzione.

Qual è dunque la lezione del Morandi per questo sistema obsoleto delle comunicazioni italiani, siano esse autostradali o dell’Anas?

Non c’è lezione tre anni dopo. I censimenti sono da venire, gli interventi si concentrano prevalentemente in Liguria ,nell’epicentro della Tragedia, con la paralisi del traffico che nel cuore dell’estate sta soffocando la Liguria e Genova. Aspettando non Godot, ma il processo, le anagrafi territoriali, i report, la programmazione…..Un po’ troppo oltre alla tragedia che ancora brucia e a quei 9 miliardi da versare nella casse di Aspi. Come se niente fosse.

 
 
 
 
 
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