Camilleri: la sua lingua contadina origine del successo letterario e commerciale

Ho notato che sotto gli ombrelloni in spiaggia sono ancora molto letti i romanzi di Andrea Camilleri, e non solo gli ultimo come La regina di Pomerania, La moneta di Akragas, La setta degli angeli.

Vari anni fa rimasi colpito dallo strepitoso successo de La gita a Tindari: non appena comparve in libreria ne vennero “bruciate” oltre 200 mila copie in poco più di una settimana. E dopo questo blitz, dall’Olimpo dei best seller La gita a Tindari non si mosse per un bel pezzo. Anzi, ci rimase in compagnia di non pochi altri titoli dello stesso autore: un intero blocco di romanzi, per un’occupazione in massa della Hit Parade. Un’abboffata, per quanto incredibile e priva di precedenti, che al tempo de La gita a Tindari era già al suo terzo anno di vita e, a onta dei molti nasi storti, non se ne vedeva la fine.

D’accordo, Camilleri è un buon giallista, un ottimo giallista, e la Sicilia, terra di Sciascia e di Pirandello, è quanto mai adatta ad ambientare suspense di spessore. Ma basta davvero questo a spiegare un successo di tali dimensioni? Forse che altri giallisti, anche più bravi di Camilleri, hanno goduto di un così lungo tappeto rosso di vendite?

In ogni caso, l’autore de La gita a Tindari era un ottimo giallista anche nei molti anni durante i quali, come ama ricordare, gli editori cestinavano in massa i suoi “romanzetti”, inorriditi dal vocabolario arcaico, spesso dialettale, infarcito di meridionalismi. Un vocabolario accidentato, pieno di cocci, di vestigia agresti, di avanzi di archeologia più che di antiquariato preindustriale. Veri e propri rottami in un’epoca di postmodernismi e relative arie fritte, parole spesso incomprensibili disseminate come pietre in una terra non ancora arata.

Prendiamo per esempio la prima pagina de Il cane di terracotta (Sellerio, 1996), anch’esso vendutissimo. Ci imbattiamo in non pochi termini di significato oscuro, non sempre intuibile: smèusa, incaniato, stizzichi, ciriveddro, bannèra, intìfico pinsèro, gana, a patrasso, arriniscì.

La prima pagina de Il birraio di Preston (Sellerio, 1995), a mio modesto avviso un capolavoro vero, anche di intarsi, regala al lettore sorprese come scantusa, decino, truniata, scatasciante, trimoliare, arrisbigliò, picciliddro, d’incascio, vagnaticcio, timbulata, si susì, il retré. Più avanti, le pagine, per me meravigliose, di Concetta e Gaspàno, con il fantastico dialogo a gesti in chiesa, afferrano alla gola, ma i sentimenti devono farsi largo inciampando tra soro, squetò, trasuta, cilestrino, quadiò, stinnicchiata, muschittera, darrè la tarlantana, acchianava, ascutato, scantata.

Mi è venuto un dubbio, che con gli anni è diventato certezza ed è molto piaciuto, fino quasi a commuoverlo, allo stesso Camilleri: e se il suo maxisuccesso fosse la vendetta dell’anima vera, profonda e incomprimibile della lingua italiana? La vendetta e la rivincita della sua anima arcaica, agreste, contadina, stufa di essere calpestata sull’altare del modernismo stupido e servilmente anglofilo. Ovvero: e se si fosse ribellato il grumo centrale, addirittura strapaesano e un po’ burino, il grumo ancestrale ereditato di sana pianta dal latino, che tuttora scorre nel sangue della lingua italiana e batte nel suo cuore? Definire il latino «langue de paysans», come osò fare nel 1925 il latinista francese Jacques Marouzeau, provocò gli strali del Giacomo Devoto della Storia della lingua di Roma.

Una dozzina di anni fa ho pubblicato queste mie considerazioni su La Rivista dei Libri. Piacquero talmente a Camilleri che  disse di “essere stato molto contento di leggere in questi ultimi tempi tra gli interventi sul linguaggio mio”, uno di un giornalista che si chiama Nicotri, il quale elabora una teoria devo dire per me molto suggestiva, e che quasi mi commuove, cioè a dire che uno dei fattori del successo è il recupero di una lingua italiana praticamente contadina, come passò dal latino e divenne volgare ma proprio con termini contadini, terreni, e che forse, di fronte a questa previsione che abbiamo di perdite di identità varie (che poi bisognerà vedere se è un rischio) noi italiani ci aggrappiamo a quest’ultimo calore di questa lingua”.

L’origine “paesana” della lingua latina, non più originale e nobile dell’osco o del sannita, è un dato di fatto. Ed è un dato di fatto l’origine altrettanto paesana dell’italiano, più di altri eredi figlio del latino. Può persino essere divertente, in un Paese dominato dalla morale e dalla Chiesa cattolica, ricordare come Marouzeau indicasse che la usatissima parola peccare in latino altro non era se non lo scalciare del cavallo. Ci si immolerebbe forse meno se si sapesse che immolare viene da quella “salsa mola” con la quale i romani aspergevano gli animali prima di sacrificarli agli dèi.

Vasco Rossi invoca una vita esagerata, senza immaginare che l’aggettivo non vuol dire altro che “fuori dal campo coltivato”. Così come egregio significa “fuori dal gregge”. E a proposito di greggi, peculiare, pecunia (oggi apprezzata più che mai!) e peculato (così di moda…) sono tutti vocaboli provenienti dall’umile “pecus”, vale a dire pecora. In un’epoca di giustizialismo vero o presunto non è male ricordare, a scanso di equivoci, che giustizia, giureconsulto e giuramento vengono dal giogo, quello dei buoi.

Il sereno come il sazio vengono da “serere”, cioè da seminare. Maturare, che si tratti di una decisione o di un carattere, viene chiaramente dalla frutta e dalle messi. Idem per acerbo ed esacerbare. Imbecille voleva dire “privo di appoggio”, così come stimolare e pungolare vengono dall’incitare gli animali con bastoni acuminati. Decidere, verbo caro ai decisionisti, non significa altro che tagliar rami, così come la buona e la cattiva reputazione, le imputazioni degli imputati e le amputazioni vengono tutte dal potare vigne e alberi da frutta.

Notizia che non farà piacere all’ex ministro e sindaco di Milano Letizia Moratti, la parola letizia viene dal “laetamen” dei campi e la parola cultura viene dal coltivarli, così come il verso, anche quello della poesia, l’avversario e il delirare nascono dai solchi e confini d’acqua dei campi coltivati. Il vivere viene dalla vite, quella con i cui grappoli facciamo da millenni il vino.

C’è a dire il vero anche un vocabolo che disturba assai perché mostra come la parola che indica l’attitudine e l’attività più elevata del genere umano, quella che ci distingue dagli animali, ha una origine e un significato francamente mortificanti. Mi riferisco al verbo pensare. Che infatti viene dal pensum, che altro non era se non la quantità giornaliera di lana che le schiave romane dovevano filare ogni giorno per poi – appunto – appenderla agli appositi ganci. Tant’è che in definitiva pensare e pesare si possono considerare etimologocamente come la stessa parola, cosa che riscontriamo quotidianamente in alcune espressioni italiane e dialettali, da “gravato da pensieri”, con gravare che significa pesare, tant’è che un grave altro non è se non un peso, al modo di dire partenopeo – rozzo ma efficace – “il cazzo non vuole pensieri”, perché questi gli sono di peso. E in effetti se sul “coso” ci appendiamo dei pesi ecco che è tirato verso il basso anziché tirare verso l’alto…

Si potrebbe continuare a lungo. Come si vede, sono tante le parole della lingua italiana che incorporano e risuonano significati più premoderni e campagnoli del previsto. Con buona pace anche del Manzoni e delle risciacquature in Arno. Come dice Umberto Eco: stat rosa pristina…

Si dirà che tutte le lingue antiche hanno inevitabilmente un forte bagaglio “paesano”. Ma non è vero: il greco, il sanscrito, il vedico, lo stesso indoeuropeo e la sua variante indoiraniana hanno un vocabolario che denota origini ben più aristocratiche.

La mia ipotesi, tuttavia, qualche riscontro almeno cronologico lo ha. È infatti curioso come, in definitiva, stando al calendario, il successo di Camilleri sia arrivato quando il Bel Paese “entrava in Europa”, con la camicia stretta, se non di forza, di Maastricht. Ed è parimenti curioso come tale successo sia poi montato man mano che aumentava la dose di modernità varie (Internet, moda e pubblicità in testa) a base di terminologie e/o scopiazzature anglosassoni. Per diventare infine un successo ancor più strepitoso quando il diluvio anglofilo ed esterofilo (purché non si tratti di immigrati, per carità) vomitato dai mass media è diventato universale, irrefrenabile, un vero e proprio sport, o delirio, nazionale: la New Economy e il “Padania day”, lo “I care” scopiazzato dal popolo veltroniano e il “Security day” di quello berlusconiano, il “Crime day” della Confesercenti, gli spot pubblicitari esclusivamente in inglese.

Infine, a mo’ di fuochi d’artificio finali, l’imperversare di conduttrici, presentatrici, vallette e ospiti più o meno fisse, ormai su qualunque canale, a dozzine, onnipresenti e onniscienti, tutte buone, tutte brave purché non italiane. Purché parlino “esotico”, storpino cioè la lingua italiana e la riducano a optional in tutti i modi possibili e immaginabili.

Concludo: probabilmente Camilleri ha grande successo perché utilizza una lingua, tutta sua, quanto mai adatta a pescare bene e a fondo nelle memorie più o meno inconsce della lingua italiana minacciate dal diluvio anglo-moderno. La stessa attività del pensare è resa possibile solo ed esclusivamente dalla lingua parlata: quando pensiamo, infatti, pensiamo tramite vocaboli, tramite parole e modi di dire. Inevitabilmente, quindi, anche tramite i loro contenuti sedimentati, che in qualche modo agiscono in noi come rumore di fondo. Gli innumerevoli termini arcaico-dialettali del “camillerese”, da meridionale premoderno, sconfitto e superato dalla Storia, sono il pendant ideale nei confronti di modernità e postmodernità minacciose, incalzanti, nordiche in quanto “anglo”, imposte, vincenti e/o supponenti. Il linguaggio di Camilleri inoltre ci aiuta a ricordare meglio quando, appena una cinquantina di anni fa, eravamo ancora un popolo di emigranti, con le pezze al sedere. Si vede che il benessere e la modernità non hanno cancellato in tutti la memoria. La memoria e un pizzico di nostalgia: se non altro la umana, inevitabile nostalgia del “bel tempo che fu”, l’amarcord. Il vocabolario camillerese pizzica ancora in molti quelle corde…

Si dice che la lingua italiana diventerà, nel vasto mondo, una faccenda priva di importanza e di futuro. Sono cose che succedono, nella Storia. Ma se siamo o saremo in vista degli ultimi fuochi, il successo di Camilleri credo ci dica che molta gente ne vuole e ne vorrà vedere ancora a lungo le fiamme, le faville, il fumo, i tizzoni. E sentirne il calore.

Tutto qui. Ma vi pare poco?

 

Una dozzina di anni fa ho pubblicato queste mie considerazioni su La Rivista dei Libri. E come ho detto prima piacquero talmente a Camilleri che intervistato da Gianni Riotta alla Fiera del Libro di Torino del 2000 ebbe a dichiarare: “… e devo dire di essere stato molto contento di leggere in questi ultimi tempi degli interventi sul linguaggio mio, uno di Sofri e uno di un giornalista che si chiama Nicotri, il quale elabora una teoria devo dire per me molto suggestiva, e che quasi mi commuove, cioè a dire che uno dei fattori del successo è il recupero di una lingua italiana praticamente contadina, come passò dal latino e divenne volgare ma proprio con termini contadini, terreni, e che forse, di fronte a questa previsione che abbiamo di perdite di identità varie (che poi bisognerà vedere se è un rischio) noi italiani ci aggrappiamo a quest’ultimo calore di questa lingua”.

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