Pd. Venire a patti con Berlusconi in nome della stabilità, piatto di lenticchie

Pd. Venire a patti con Berlusconi in nome della stabilità, piatto di lenticchie
Guglielmo Epifani: Venire a patti con Berlusconi ha un senso per il Pd?

Nello scrivere sui suggerimenti forniti pubblicamente a Silvio Berlusconi da Luciano Violante per ritardare il più possibile o annullare gli effetti della condanna definitiva inflittagli dalla Cassazione, abbiamo detto che il rischio che corre il partito di Violante, il Pd, non è quello del giacobinismo, bensì quelli del ridicolo, dell’amnesia a comando o selettiva e della prosecuzione della sudditanza televisiva con tutto ciò che ne deriva. Più, come vedremo, un quarto rischio, questo però a carico dell’Italia intera.

Riguardo il rischio del ridicolo, alla festa nazionale del partito tenuta a Genova nei giorni scorsi, il kennedyano Walter Veltroni – ammiratore di Berlusconi almeno dalla Festa dell’Unità del 12 settembre ’86 a Milano, alla quale parteciparono assieme – ci ha tenuto a dichiarare alla platea che “Enrico Letta e Matteo Renzi devono essere come Obama e Hilary Clinton”.

Per il pericolo di amnesia a comando o selettiva basta citare come nessuno, neppure il legalista Violante, osa far notare che tra i più stretti e storici collaboratori di Berlusconi ci sono due condannati per reati gravi. Il primo è Cesare Previti, condannato a suo tempo a sei anni di carcere per aver corrotto dei giudici e comprato una sentenza della quale è stato decretato che “Berlusconi aveva la piena consapevolezza che era stata oggetto di mercimonio”. Da notare che Previti era un avvocato il cui unico cliente era Berlusconi. Il secondo è Marcello Dell’Utri, condannato in appello a 7 anni per concorso esterno in associazione mafiosa per aver svolto il ruolo di “intermediario” tra la mafia e Berlusconi, come si legge nelle motivazioni della sentenza rese note in questi giorni nell’agghiacciante silenzio di Violante e dell’intero Pd.

Da notare che sia Previti sia dell’Utri sono stati entrambi piazzati da Berlusconi in parlamento e che Previti nel suo primo governo tentò perfino di piazzarlo come ministro della Giustizia pur sapendo che aveva corrotto per conto suo dei magistrati. Come è noto, poiché l’allora presidente della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro, impedì che la Giustizia cadesse in simili mani, Berlusconi come premio di consolazione ottenne per il suo avvocato Previti la nomina a ministro della Difesa.

A voler essere precisi, nessuno cita più, nel Pd, la condanna a 7 anni e all’interdizione perpetua dai pubblici uffici che ha colpito Berlusconi il 24 giugno scorso, cioè a dire appena due mesi e mezzo fa, e le inchieste di Napoli e Bari che rischiano di vederlo rinviato a giudizio a Napoli per avere pagato almeno un senatore per far cadere il governo Prodi e a Bari per avere pagato Giampi Taratini perché mentisse ai magistrati che indagano sul giro di prostitute graziosamente portategli a casa a Roma a palazzo Grazioli. Ricordiamo che a Napoli la Procura, il 9 maggio scorso ha chiesto il rinvio a giudizio di Berlsuconi con l’accusa di corruzione per avere versato in nero tre milioni di euro all’allora senatore Sergio De Gregorio, dell’Italia dei Valori, per farlo emigrare nelle file del centrodestra e rendere precaria la già difficile vita del governo Prodi. Ricordiamo anche che a Napoli l’udienza preliminare per decidere sul rinvio è già iniziata ed è proseguita il 19 luglio, cioè appena un mese e mezzo fa.

Nessuno si ricorda più, neppure nel Pd, della condanna del 7 marzo scorso, esattamente 6 mesi fa, a un anno di reclusione per la famosa intercettazione tra Piero Fassino e Giovanni Consorte ai tempi della scalata alla Bnl da parte di Unipol.

Come si vede, la smemoratezza a comando o ad personam non solo esiste come rischio, ma è già operante come realtà.

Per il pericolo, di fatto una certezza, che il Pd prosegua nella propria sudditanza televisiva, basta notare che se almeno a parole pone il problema della doverosa decadenza di Berlusconi da senatore, non si sogna invece neppure da lontano di porre il problema del suo possedere ben tre tv private con annessi e connessi: un concentrato di potere massmediatico le cui conseguenze dentro e fuori il parlamento e il governo sono sotto gli occhi di tutti perché è, di fatto, alla base del degrado politico istituzionale dell’Italia.

Il Pd non si sogna di sollevare il problema perché non intende neppure sollevare il problema dell’eccesso di reti della Rai. Le tre reti Rai sono infatti l’eredità avvelenata dell’epoca in cui i tre maggiori partiti, la Democrazia Cristiana , il Partito Comunista e il Partito Socialista, pensarono di spartirsi la tv di Stato assegnando Raiuno alla Dc, Raidue al Psi e Raitre al Pci. E proprio l’esistenza di tre reti Rai ha giustificato il possesso di altrettante reti private da parte di Berlusconi, il cui successo ha costretto la tv di Stato a una rincorsa basata sul progressivo scadere della qualità dei programmi mandati in onda.

Ma il Pd, erede del Pci, resta avvinto a Raitre e non intende perderla. Oltre che uno strumento utile a influenzare almeno parte dell’opinione pubblica, la terza rete Rai è utile anche per sistemare amici e conoscenti purché di area PD. Il dramma è che sei grandi reti nazionali, senza contare quelle altrui più piccole, sono una enormità che non ha eguali in tutto il mondo civile. E che succhia il sangue al giornalismo della carta stanpata perché assorbe la quasi totalità degli investimenti pubblicitari. Il problema quindi è che non si guarisce dal male se si permette a Berlusconi di uscire dalla scena politica tenendosi intatte tutte le “aziende di famiglia”.

Si direbbe che il Pd abbia paura di non avere più un ruolo sufficientemente chiaro una volta scomparso dalla scena politica Berlusconi. L’antiberlusconismo, sia pure di fatto solo a parole e di facciata, è stato per gli eredi del Pci un ottimo argomento politico ed elettorale, che oltretutto ha permesso di far passare in secondo piano, evitando venisse notata, la loro ignoranza crescente di come sia composta la società italiana e il suo sistema produttivo.

Questa paura comporta però un quarto rischio: quello di non rendersi conto che continuare a venire a patti con Berlusconi e con il berlusconismo equivale a venire a patti con la diffusione di un tumore: che se non reciso per tempo diventa poi un cancro incurabile.

Il Governo e il Pd invocano a gran voce la “stabilità” per non perdere quello che sembra una pallida anticamera di una possibile ripresa economica italiana. Ma questa “stabilità” comporta l’impossibilità di guarire dal tumore berluscone, che ha anche mostrato inquinamenti malavitosi, perfino mafiosi, di non poco conto. Il piatto di lenticchie di una eventuale ripresina economica vale davvero la vendita della primogenitura? Vale cioè davvero la rinuncia alla certezza dello Stato di diritto e all’occasione di poter finalmente uscire dal degrado a tutti i livelli e riconquistare la politica intesa come interesse generale anziché “di famiglia” quale che essa sia?

 

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