Schiavi, basta un soprannome, cancella l’identità e apre a predatori e trafficanti. Testimonianza di Ricardo Preve

di Ricardo Preve *
Pubblicato il 21 Febbraio 2021 - 12:44 OLTRE 6 MESI FA
Schiavi, basta un soprannome, cancella l'identità e apre a predatori e trafficanti. Testimonianza di Ricardo Preve

bambino schiavo

Schiavi, minori sfruttati, traffico di esseri umani: i soprannomi sono l’etichetta. In questi ultimi vent’anni in giro per il mondo (sono stato in 80 paesi) ho avuto occasione di vedere tante cose belle: oggetti, paesaggi, e persone.

Ma ho anche visto tante cose brutte. Fra queste un aspetto della condizione umana che spesso, forse nella speranza di diminuirne l’orrore, viene relegata al passato nella nostra coscienza collettiva.

Ma che ha una rilevanza molto attuale: la schiavitù. Oggi il traffico di esseri umani è un fenomeno su scala mondiale.

In Italia siamo testimoni dello spettacolo, frequente alla televisione e in altri media, di migranti africani che disperatamente attraversano il Mediterraneo su barconi precari, spesso con tragiche conseguenze.

I piccoli schiavi di Phuket

Personalmente, ho avuto occasione di vedere la schiavitù anche in altre regioni del mondo. Per esempio, a Phuket sulla costa occidentale della Tailandia. Dove migliaia di ragazzine si prostituiscono nei bar frequentati da turisti per lo più europei e nord-americani.

Oppure a Puerto Galera, nelle Filippine, dove uomini che vi si recano ufficialmente allo scopo di fare immersioni subacquee, “affittano” ragazze minorenni e le portano sulle barche per esibire agli altri subacquei le loro “conquiste”.

Voglio in questo articolo soffermarmi su un fenomeno particolarmente grave che succede nelle vicinanze di Puerto Plata, una città sulla costa nord della Repubblica Dominicana.

Qui troviamo una combinazione di fattori che formano una situazione ideale per incoraggiare abuso di esseri umani. Un flusso continuo di bambini che vengono sfruttati da uomini che praticano un vero e proprio turismo sessuale.

Gli schiavi dello zucchero di Haiti

Da una parte infatti ci sono le migliaia di uomini e donne haitiani che lavorano nelle piantagioni di canna da zucchero situate nell’entroterra della regione. Questi braccianti, poverissimi, vivono nei cosiddetti “bates”.

Bidonvilles in cui sono tenuti d’occhio da guardie armate di fucili, non al fine di proteggerli da eventuali minacce. Ma piuttosto di impedire che scappino, essendo molti di loro in debito con la piantagione per via del cibo e dell’alloggio che ricevono. 

I loro bambini non hanno opportunità né di frequentare le scuole, né di ricevere assistenza medica o sociale. Spesso viene loro rifiutato persino il certificato di nascita da parte delle autorità dominicane, il che li condanna ad uno stato legalizzato di non-umanità.

Molti di questi bambini si spostano verso la zona dei resort turistici nelle vicinanze di Puerto Plata, non lontani dalle piantagioni di zucchero. Ivi vivono lungo il “malecon”, il lungomare della città, trovando rifugio per dormire nei cespugli sulla spiaggia, o sotto le barche dei pescatori. 

Il rimorchio dei viziosi stranieri

Ma non tardano ad essere accostati da uomini stranieri, che presto li ingaggiano per a fini sessuali. Ed è così che tanti piccoli vengono violati da questi predatori. I bambini, alcuni sotto i 10 anni, privi di famiglia, di uno stato, o di una società che li protegga, diventano facile preda dell’orrore. 

Ho osservato che per questi bambini non viene quasi mai usato il loro nome. Piuttosto, sono noti  con soprannomi diminutivi come “Jimmy”, “Johnny”, o “Betty”. Alcune ONLUS che combattono contro la prostituzione infantile in questa zona hanno cominciato a confezionare carte di identità informali per questi bimbini. Indagando sui loro veri nomi, ed aggiungendo altri dati anagrafici. Quali il luogo e la data di nascita, oppure i nomi dei genitori. Questo con l’obbiettivo di restituire a questi bambini la loro dignità di esseri umani.

I diminutivi per gli schiavi non sono coincidenza

Studiando la questione, ho notato come l’uso di diminutivi, nel riferirsi agli schiavi, in tanti posti e tempi diversi, non è una coincidenza. Ma piuttosto una pratica al servizio di una strategia di de-umanizzazione. E di affermazione della schiavitù. 

Privare una persona del proprio nome è un primo passo, essenziale, per trasformare un essere umano in un oggetto, e facilitarne così la vendita. Consideriamo che altri esseri viventi, come i cani e i cavalli, vengono ugualmente chiamati con un solo nome, e non con nome e cognome. 

Potrei citare numerosi esempi di questa pratica, ma per adesso ne basterà uno. Nel Sud degli Stati Uniti, ancora oggi, esiste una differenza nel nominare i neri. 

Thomas Jefferson fu una figura di primissimo rilievo nella storia dell’indipendenza del Paese. Jefferson visse la maggior parte dalla sua vita presso la sua piantagione “Monticello”, sita nelle montagne della Virginia. Dove lavoravano centinaia di schiavi (per lui che diceva essere contro la schiavitù.)

Le ambiguità di Monticello

Nei cartelli che spiegano la storia della piantagione ai turisti che la visitano, e nei documenti che raccontano la storia di questa tenuta, quasi sempre i personaggi bianchi sono accennati con i loro nomi completi. Thomas Jefferson, o le sue figlie Martha Jefferson Randolph, e Maria Jefferson Eppes. Certamente, non ci sono riferimenti a “Tommy” Jefferson.

Ma questa dignità è rifiutata a una donna nera, Sarah Hemings, che ebbe una relazione con Jefferson per più di 38 anni. E gli diede per lo meno quattro figli che sopravvissero all’infanzia. Lei è sempre menzionata con il soprannome diminutivo “Sally”. Ho fatto notare questa ingiustizia alle autorità di Monticello, sino adesso con risultato negativo. 

I nomi sono importanti. Danno ad ognuno di noi un senso di identità. Ci legano alla nostra famiglia, alle nostre case, e ai nostri circoli affettivi. E questi legami risultano scomodi all’uomo che si porta un bambino per la mano dalla spiaggia alla sua stanza in albergo. Il predatore preferisce dimenticare la condizione umana dell’essere che sta per violentare. Dopo tutto, se chi ha di fronte non ha un nome è più facile abusarne.

Essere coscienti di questa realtà è il primo passo necessario per cambiarla. 

* Ricardo Preve è un regista e giornalista italo-argentino che vive negli USA. I suoi documentari sono stati trasmessi su catene internazionali come National Geographic, Al Jazeera English, e la RAI.