
La locandina, il consiglio cinematografico di oggi: Grand Budapest Hotel, di Wes Anderson - Blitz Quotidiano
Pochi giorni fa la Universal Pictures ha rilasciato il trailer ufficiale del nuovo attesissimo film di Wes Anderson, ovvero La trama fenicia, che uscirà nelle sale italiane il 28 maggio. Il nuovo universo creato dal regista di Moonrise Kingdom (2012), I Tenenbaum (2003), Il treno per il Darjeeling (2007) e L’isola dei cani (2018), si presenta come un’avvincente storia di spionaggio ricca d’intrighi, interpretata da un cast stellare e naturalmente messa in scena attraverso l’inconfondibile e irrinunciabile stile del regista.
La storia del film ruota attorno al personaggio di Zsa-zsa Korda (Benicio Del Toro), uno degli uomini più ricchi d’Europa. Dopo essere sopravvissuto a un terribile incidente aereo, l’uomo decide di lasciare la sua eredità all’unica figlia femmina, ovvero Suor Liesl (Mia Threapleton). Anderson nel corso della sua carriera ci ha sempre abituati a cast ricchissimi, stracolmi di star di primissimo livello, e la sua ultima opera non fa eccezione. Oltre ai già citati Benicio Del Toro e Mia Threapleton, nel film (ri)troviamo anche Scarlett Johansson, Tom Hanks, Bryan Cranston, Mathieu Amalric, Jeffrey Wright, Riz Ahmed, Michael Cera e Benedict Cumberbatch.
Attendendo con impazienza di poter immergerci con trasporto in questa nuova avventura “andersoniana”, abbiamo deciso di pescare un film dalla sua ricca collezione di opere. Oggi, infatti, ve ne consigliamo uno dei migliori del regista texano, ovvero Grand Budapest Hotel, in cui la sua poetica, forse mai così intensa e abbagliante, si rivela in tutta la sua bellezza.
Grand Budapest Hotel, di Wes Anderson
Nel 1968, uno scrittore (Jude Law) fa visita all’ormai decaduto Grand Budapest Hotel, tra le montagne della Repubblica di Zubrowka. Qui incontra Zero Moustafa (F. Murray Abraham), che decide di raccontargli la sua storia e di come è diventato il proprietario dell’hotel. Facciamo poi la conoscenza, nel 1932, dell’eccentrico concierge Monsieur Gustave H. (Ralph Fiennes), che intrattiene la prestigiosa clientela dell’albergo lanciandosi anche in alcuni flirt amorosi. Tra le sue conquiste c’è anche l’anziana Madame D. (Tilda Swinton), la quale sa che tra pochi giorni incontrerà la morte.
Le previsioni della donna si rivelano corrette. Monsieur Gustave, con l’aiuto del giovane inserviente Zero (Tony Revolori), si reca nella casa della signora, scoprendo che quest’ultima ha lasciato in eredità un prestigioso quadro al suo amante. Approfittando della confusione generata dalle proteste del figlio della donna, ovvero Dmitri (Adrien Brody), Monsieur Gustave e Zero si appropriano del quadro facendo poi ritorno al Grand Budapest Hotel.
Zero si innamora di Agatha (Saoirse Ronan) e progetta di rubare il quadro, mentre Gustave viene arrestato come unico sospettato per la morte della sua anziana amante. Una volta fuggito, naturalmente con l’aiuto di Zero, Monsieur Gustave si ritrova in una situazione alquanto spiacevole: da un lato Dmitri e il suo sicario Jopling (Willem Defoe) gli danno la caccia, dall’altro anche l’ispettore Henckles (Edward Norton) vuole catturarlo per condannarlo a un crimine che in realtà non ha mai commesso.
Una favolosa riconferma
Quando ci si approccia a un qualsiasi film di Wes Anderson, che sia il più riuscito o il meno avvincente, si viene sempre ben accolti in un mondo in cui ogni cosa, dalla più piccola alla più evidente, risulta inscindibile dalla poetica del suo autore, dal suo stile distintivo e affascinante. Quello di Anderson, infatti, è un mondo in cui tutti gli elementi, dai singoli dettagli alle più grandi architetture, risultano enfatizzati da un’armonia complessiva che può apparire artificiosa, ma che allo stesso tempo ha la forza ancestrale di sprigionare quella meravigliosa sensazione di evasione da una realtà asimmetrica come quella di tutti i giorni. Attraverso la simmetria peculiare del cinema di Anderson, ogni cosa viene restituita a un suo specifico equilibrio, un posto nell’immaginario “andersoniano” in cui acquista quel valore che altrimenti risulterebbe inespresso perché celato sotto l’indifferenza comune.
Rimandando a un certo gusto fiabesco, pur rimanendo nei territori di ciò che ci è più familiare, il regista, come nel caso di Grand Budapest Hotel, fa della messa in scena il muro portante della sua poetica, attraverso quell’architettura vintage che caratterizza gli edifici, le stanze e gli arredi. Restituendo agli oggetti una certa validità espressiva, strappandoli dunque al loro contesto anonimo e inanimato, questi comunicano costantemente, quasi per riflesso, con ogni singola emozione che guida i personaggi sulla scena. In questa perpetua e affascinante correlazione tra estetica e psicologia, tra armonia di spazio e coscienza emotiva, Anderson riesce non solo a far dialogare splendidamente due tra i più grandi emisferi dell’arte, ma ha la sensibilità autoriale di esaltarli entrambi. Ogni dettaglio, dunque, anche se lontano dalla verosimiglianza e in corrispondenza dell’onirico, è funzionale alla narrazione: nulla risulta superfluo o sprecato, anche quando l’abbondanza visiva potrebbe indurre a pensare l’esatto opposto.
In Grand Budapest Hotel si assiste a un’esposizione di situazioni sempre differenti in cui il ritmo indiavolato gioca un ruolo determinante. Più volte, dato il contaminarsi continuo di suggestioni diverse, si avverte la spinta sotterranea del surrealismo, che anima i singoli eventi o più in generale un determinato contesto situazionale: nel grottesco di fondo anche ciò che è tragico può stemperarsi nelle tonalità di una comicità brillante; viceversa, anche i toni propri della commedia possono inasprirsi improvvisamente. Dunque, la narrazione si rifà alla scomposizione di un tour de force emozionale che in fin dei conti appare ben calibrato, una sorta di caos controllato in stile Anderson. Nasce anche da questa logica dell’assurdo la palette eccentrica e multicolore di quei personaggi bizzarri e sopra le righe che da sempre vivacizzano le narrazioni del regista.
In Grand Budapest Hotel, come già accaduto in altre produzioni del regista, si ha la sensazione che i personaggi, come ritratti in un dipinto, si stacchino dalla tela del loro autore muovendosi in totale libertà, mentre i fondali, mai statici o relegati a semplice scenografia, sembrano dialogare con loro costantemente, spesso determinandone le azioni. Pur senza aggiungere tasselli rivoluzionari alla propria poetica, con Grand Budapest Hotel Anderson ne riconferma la pura bellezza consegnandola, ancora una volta, all’oggettività critica.