ROMA – American Apparel. Sesso o soldi? Il fondatore Dov Charney licenziato. Il comunicato del board di American Apparel è laconico e ultimativo ma non chiarisce: American Apparel, gigante dell’abbigliamento e dell’underwear giovane e disinibito, vuole licenziare per giusta causa il capo e fondatore, l’eccentrico Dov Charney. Su di lui pesa l’accusa di presunta “misconduct”, espressione che se traduce la cattiva condotta gestionale, può alludere ai più diversi reati. Pesano ovviamente i problemi di ristrutturazione del debito, le difficoltà finanziarie, ma anche la reputazione di Charney e la sua spregiudicata filosofia commerciale.
American Apparel è la catena più spinta d’America, al limite del porno, le sue campagne pubblicitarie hanno sempre puntato allo scandalo: modelle giovanissime in pose sexy, provocazioni in vetrina (peli pubici a vista, ammiccamenti inequivocabili ecc…), lo stesso Dov Charvey segnalato a spasso in mutande negli store (con accuse di molestie incorporate). Ma è stato anche un paladino imprevisto della classe lavoratrice, per stipendi e condizioni di lavoro più generose.
I conti vanno male: le perdite del primo trimestre 2014 ammontano a 5,5 miliardi di dollari (comunque meno dei 46,5 miliardi persi l’anno scorso). La compagnia, che Dov Charvey ha portato a una dimensione globale dopo aver iniziato producendo t-shirt, impiega 10mila lavoratori, opera in 20 paesi diversi con 249 negozi, raggiunge tramite il retail online ua sessantina di nazioni. Vale la pena riportare un commento su Gawker, forse illuminante, almeno fino a quando non si conosceranno meglio i capi d’imputazione a carico di Charney.
In sintesi, il commentatore paventa una manovra per liberarsi di Charvey che ha portato lavoro a Los Angeles e salari decenti: cosa impedirà ora di trasferire la produzione in una qualsiasi parte dell’Asia dove perfino la sicurezza degli edifici è sacrificabile alla logica del profitto?