Il Giornale: “Le sentenze salva-compagni dei giudici dell’Emilia Romagna”

Pubblicato il 12 Marzo 2010 - 19:32 OLTRE 6 MESI FA

“I giudici emiliani e le loro sentenze salva-compagni”. Lo denuncia il Giornale in un articolo di oggi sottolineando che “il rito giudiziario emiliano-romagnolo ha una propria visione dei codici legislativi  se applicati agli amministratori pubblici di sinistra”.

L’articolo esamina alcune sentenze su casi che hanno riguardato amministratori, politici e comunque personaggi noti alla “regione rossa” per eccellenza. Primo in ordine di tempo la vicenda della compravendita dell’area del Campazzo tra Modena e Nonantola, per la quale ci furono denunce e processi. L’iter processuale si conclude con una sentenza di assoluzione per il sindaco e l’assessore con la seguente motivazione: «La manovra speculativa su aree fabbricabili attuata da un partito politico (indirettamente attraverso l’interposizione di un soggetto economico) alla stregua di privati proprietari può porsi a un severo giudizio di moralità pubblica» ma «non necessariamente implica comportamenti individuali penalmente sanzionati». In questo caso, scrive ancora il Giornale, intervenne anche la Cassazione “ma la sentenza era ormai prescritta”.

Arriviamo a Tangentopoli e alla storia dei 370 milioni di lire che Nino Tagliavini, manager reggiano presidente dell’Unieco, raccontò di aver consegnato a Botteghe Oscure e “messi in mano del tesoriere Marcello Stefanini”.  Tutti soldi “non dichiarati”. In questa vicenda fu chiamato in causa Massimo D’Alema con l’accusa di finanziamento illecito. D’Alema fu prosciolto. “Tagliavini – scrive il Giornale – rivelò di aver partecipato a una riunione con molti presidenti di coop in cui D’Alema fece loro presente i problemi finanziari del partito avvertendo che Stefanini li avrebbe chiamati”. Ma per il gip di Reggio Emilia «una richiesta di aiuto finanziario non costituirebbe determinazione o istigazione a commettere falsi in bilancio». Massimo D’Alema poteva anche non sapere, pur controllando il portafoglio del partito, e quindi in quel caso non aveva la responsabilità del finanziamento illecito.

Più recente è, invece, lo scandalo Coopservice. La cooperativa di Reggio Emilia aveva generato nella quotazione in borsa della controllata Servizi Italia una plusvalenza di 36,4 milioni di euro: una somma che si erano spartiti 300 soggetti, tra cui presidente e vicepresidente della stessa Coopservice. A far da perno allo svolgersi dell’operazione, la società lussemburghese First Service Holding (Fsh), una finanziaria creata nel dicembre 2004 e di cui i 300 erano soci: una scatola in cui Coopservice aveva parcheggiato 5 milioni di azioni di Servizi Italia, il 40%, al prezzo unitario di 1,149 euro.

Lo scandalo produsse un rapporto della Guardia di finanza che faceva 46 nomi, ma il procuratore capo di Reggio indagò soltanto i due personaggi di vertice. “Egli riconobbe il marcio nell’operazione: «Non si voleva che le plusvalenze venissero distribuite tra tutti i soci ma a un numero ridotto di persone», un tradimento pieno dello spirito cooperativo e delle leggi che lo regolano (più favorevoli rispetto alla normativa sulle spa)”. Lo scandalo però fu chiuso con una richiesta di archiviazione del pm per i due indagati: «Si può parlare di insider trading solo se le società è già stata ammessa alla quotazione in Borsa».