Cornigliano, la tregua burla copre l’oggetto di nuovi desideri, simbolo di un fallimento collettivo - Blitzquotidiano.it (foto ANSA)
La guerra che conta oggi nella Genova spezzata in due dai cortei e dagli scioperi è quella degli operai che difendono la loro fabbrica insieme all’industria dell’acciaio, che qui è nata in Italia e qui rischia di essere seppellita.
La vicenda dell’ acciaio a Genova con la città bloccata, l’indeterminatezza della trattativa tra il povero Bucci e i commissari dell’ acciaio è la prova del fallimento dell’ intera classe politica genovese e ligure che ha abbandonato totalmente il tema di Cornigliano e della sua produzione dedicandosi a ridurre la politica a mera propaganda fatta di scontri dibattiti inutili starnazzamenti (ultimo quello sul presepe) trascurando i veri problemi .
Parlo di fallimento di questa e delle precedenti classi politiche onnicomprensive di ogni partito movimento lista civica … non avevo mai visto occupare l’ autostrada.
Un tempo per l ‘ Italsider gli operai salivano sul palco di Sanremo e ottenevano un risultato mentre la politica trattava senza barriere….
Gli opera di Cornigliano in piazza a Genova

Sono in milleduecento all’ex Italsider, ex Ilva, ex Acelor Mittal e oggi Acciaerie d’Italia. Aspettano duecentomila tonnellate di preridotto, i pezzi d’acciaio che devono zincare dopo che Taranto li spedisca.
E invece da Roma arriva di tutto meno che quelle tonnellate che “legano” questa fabbrica a quella di Taranto e suoi due altoforni. Soprattutto arriva la conferma che il governo Meloni e Urso il ministro, che un tempo di sarebbe chiamato dell’Industria e oggi invece è significativamente del Made in Italy, non hanno un piano industriale.
Sperano confusamente che qualche imprenditore privato dell’acciaio, un Arvedi o una Marcegaglia, tanto per non fare nomi, si prenda la patata bollente di Cornigliano, Novi Ligure e Racconigi, la filiera che dipende da Taranto.
Chiedono 5 miliardi di danni all’ultimo padrone delle fabbriche italiane, gli indiani di Acelor Mittal, che se ne sono andati lasciando impianti o fermi o per nulla mantenuti adeguatamente.
E assicurano che nessun operaio resterà a casa fino a marzo, quando uno degli sputafuoco di Taranto si metterà a funzionare.
Nessuno a Genova ci crede. E così gli operai, che trovano la solidarietà anche delle altre fabbriche Ansaldo e perfino Fincantieri, muovono un vero corteo di guerra e assaltano il palazzo della Prefettura, che rappresenta il Governo in città: paralizzano il centro, con i mezzi pesanti che invadono la storica piazza Corvetto. Il palazzo, che è protetto da uno spiegamento di forze di polizia e carabinieri che non si vedeva dai tempi storici del 30 giugno 1960.
Gli operai cercano di scavalcare la grata che protegge il palazzo. La polizia spara lacrimogeni, il fumo di uno di questi si infila per la galleria Mazzini, dove è allestita la mostra dei libro.
La gente fugge perché il lacrimogeno è insopportabile.
Una mezza guerriglia
Il prefetto che è una signora, Cinzia Toracco, di fronte alla violenza non riceve la delegazione degli operai. Non apre il portone per ricevere le tute blù a cui non saprebbe cosa dire.
E allora il corteo annuncia che andrà a bloccare i treni nella stazione Brignole.
Nella folla armata degli operai arriva la sindaca Silvia Salis e parla con in megafono. confermando che venerdi sarà di nuovo a Roma con il presidente della Regione Marco Bucci per incontrare il ministro Urso e avere notizie più concrete [Le notizie dopo l’incontro di Roma sanno un po’ di tampone presa in giro].
Gli operai le chiedono di sospendere il consiglio comunale per solidarietà con la loro situazione fino a che non ci sarà un sblocco. Oramai la decisione di andare a assaltare la stazione, dopo la prefettura, manda in tilt un altro pezzo di città.
Un salto di qualità dopo i blocchi stradali dei giorni scorsi nel quinto giorno di una rivolta, che sta segnando anche un po’ la storia di Genova.
La città si spezza ancora in due, mandando ancora di più in crisi le connessioni intere di una Genova, che ha solo due strade per comunicare lungo la sua costa: le autostrade e la statale, la mitica Aurelia. Chiuse quelle, la città soffoca. Se poi si blocca anche il centro…..
Hanno invaso simbolicamente il ponte autostradale, che è stato costruito in 18 mesi, dopo il crollo del Morandi, grazie sopratutto all’allora sindaco, Marco Bucci. E ora vanno a bloccare il traffico ferroviario, separando i quartieri del centro in molte delle cui strade i cittadini non possono passare, né a piedi né tanto meno in auto.
Marco Bucci, il presidente della Regione. in due serate di vento gelido era a solo in mezzo ai blocchi stradali a spiegare agli operai i suoi sforzi per trovare una soluzione per superare le trappole che Roma mette alla ripresa della lavorazione.
“ Io continuo a lavorare, non mollo”, dice dopo che i capi del sindacato hanno parlato duro e anche minaccioso, come ha fatto il loro leader storico, oggi ottantenne, Franco Grondona, che promette di affrontare le “guardie” fisicamente “se cercheranno di chiuderci la fabbrica.”
Tira un vento gelido a Cornigliano e poi in centro e non certo solo metaforicamente in mezzo al blocco degli operai, con i pancali di legno incendiati per scaldare la resistenza e le tende per passare insonni una notte di freddo e di angoscia, pronti a spezzare di nuovo la città in due.
Fanno rumore nella città questi operai che sembrano guerrieri, gli ultimi dei Mohicani, con la scritta Fiom sulle tute, sulle felpe che non proteggono dal vento ghiacciato che arriva dal mare.
Fanno rumore ma chi li sente? Un po’ la città bloccata è con loro, un po’ è contro perchè il blocco del traffico diventa un incubo per migliaia di automobilisti bloccati in autostrada, nei caselli autostradali, e ci sono i bambini da andare a prendere a scuola e le autoambulanze, che non arrivano agli ospedali, i furgoni che portano i pasti nelle scuole e negli ospedali, che non arrivano più. Un caos.
Fanno rumore ma fuori da questa città chi li sente? Una volta questi blocchi, queste proteste scuotevano non solo la città, ma arrivavano a Roma nelle stanze del potere, provocavano trattative anche dure ma con vie d’uscita.
Oggi no: sulle pagine dei giornali, salvo quelli locali, la notizia di Genova assediata conquista solo poche righe.
Ci sono le guerre che incombono, il generale della Nato, che promette attacchi preventivi alla Russia e Putin che risponde “noi siamo pronti” e quella trattativa che si infossa ancora.
Poi c’è Gaza, la tregua mezza finta e il Medio Oriente che brucia. E poi ci sono i teatrini della politica italiana, che si susseguono su tanti temi.
Chi li sente gli operai di Genova, con i loro metodi di lotta antichi come la loro fabbrica e anche di più e questo mondo moderno dove anche la parola fabbrica sparisce, come gli altoforni.
Cornigliano è una landa di milioni di metri quadrati, appetita da tutti perché ha le banchine sul mare, tra l’aeroporto e i terminal di un porto che pulsa e che tra poco avrà davanti una nuova grande diga per far entrare navi ancora più grandi con milioni di container da sistemare.
Cornigliano è un oggetto misterioso, perché oltre a quella fabbrica che forse si spegne ci sono spazi immensi, che potrebbero avere tante destinazioni, logistiche, di nuove industrie uno punto quattro o cinque.
Ma nessun governo ci ha mai pensato bene, nessuna amministrazione locale di qualsiasi colore, centro sinistra della decrescita felice del marchese rosso Marco Doria o del manager Marco Bucci, è mai riuscito a cavarci un ragno dal buco e neppure prima di loro e neppure i presidenti della Regione, che si sono succeduti fino a quel postcomunista di Claudio Burlando, che firmò nel 2005, venti anni fa, l’accordo di programma con l’industriale Riva, per garantire l’acciaieria a freddo e la fine di quella a caldo.
Ma dopo? In venti anni non c’è la barba di un parlamentare, di un ministro, di un economista illustre che abbia lavorato a un futuro di Cornigliano. E ora la bomba è esplosa.
