Dolce&Gabbana. “Pregiudizio da sinistra” ma “il Fisco li ha condannati”

Dolce&Gabbana. "Pregiudizio da sinistra" ma "il Fisco li ha condannati"

La serrata di Dolce&Gabbana contro il Comune di Milano un cui assessore, Franco D’Alfonso li ha tacciati di essere evasori fiscali, continua a far parlare in tanti. La Stampa e il Fatto offrono spunti interessanti per farsi una opinione.

Per la Stampa, Paolo Colonnello ha intervistato Stefano Boeri, ex assessore alla cultura di Milano.

Secondo Stefano Boeri,

“C’è un pregiudizio verso il mondo della moda, considerato solo lusso e superfluo, ma è un segno di grave strabismo. E di ignoranza verso una realtà che rappresenta una filiera produttiva di primaria importanza. La moda a Milano non è solo di sfilate o personalità glamour, ma è una realtà lavorativa articolata, fatta di progettazione, piccole imprese, scuole, agenzie”.

La reazione di Domenico Dolce e Stefano Gabbana, per Stefano Boeri

“è stata inaccettabile e incivile”.

Ma è vero anche

“che un assessore del Comune non può sostituirsi alla magistratura (la loro rimane comunque una condanna di primo grado) e attaccare senza distinzioni un mondo che ha radici profonde nell’economia della città e continua, nonostante la crisi, a tenere”.

Per questo Boeri definisce l’uscita dell’assessore D’Alfonso è stata

“goffa e superficiale. La cosa più grave è che se la si collega ad altre scelte di riduzione degli orari dei locali e di tassazione degli spazi pubblici, emerge un atteggiamento punitivo nei confronti del mondo vasto delle micro-imprese urbane (commerciali, culturali, artigianali..) che in un momento di crisi è illogico. Chiudere e tassare spazi e tempi in una città che ha nel suo Dna il rischio d’impresa, vuol dire non aver capito Milano”.

Chiede Paolo Colonnello se non si tratti di un pregiudizio ideologico di sinistra. Risponde Boeri:

“C’è ancora un pregiudizio verso l’attività d’impresa. Ma non possiamo più limitarci a difendere solo chi lavora e non invece chi il lavoro lo produce. Questo è un passaggio fondamentale. E i Comuni non hanno strumenti per intervenire sull’economia di una città se non quelli di mettere a disposizione le loro risorse, le piazze, le strade, i musei, ma anche gli spazi vuoti e abbandonati. A Parigi o New York, che ci contendono il primato della moda, le municipalità si mettono a disposizione senza porre lacci e tasse”.

Gianni Barbacetto sul Fatto vede la vicenda dal punto di vista della cronaca giudiziaria e parte dalla doppia pagina pubblicitaria pubblicata da Dolce&Gabbana  su alcuni quotidiani

“in cui gli avvocati dei due contestano la condanna ricevuta (1 anno e 8 mesi di reclusione per omessa dichiarazione dei redditi) e offrono la loro interpretazione dei fatti all’origine del processo: non c’è stata alcuna evasione, perchè D&G su 360 milioni di entrate hanno pagato regolarmente le tasse (162 milioni, il 45 per cento), mentre l’erario ne pretendeva ben 549. “Com’è possibile che ci chiedano di pagare tasse superiori alle entrate, quasi il doppio di quanto incassato?”.

Per capirlo, avverte Gianni Barbacetto,

“bisogna tornare al 2007, quando in seguito a una verifica fiscale, ai due stilisti viene contestata una megaevasione. L’accusa: Dolce & Gabbana hanno fatto un trucco all’estero, creando una società lussemburghese, la Gado, a cui hanno venduto (per 360 milioni, appunto) i marchi del gruppo. Ma quei marchi valevano ben di più: oltre 1 miliardo di euro, dunque le tasse da pagare erano 580 milioni. Da qui il processo e la condanna”.

Precisa Barbacetto:

“Il giudice ha condannato per l’omessa dichiarazione della società Gado, anche se ha assolto (con la formula “il fatto non sussiste”, benché fosse già maturata la prescrizione) per il reato di dichiarazione infedele dei redditi, per l’evasione che sarebbe stata realizzata attraverso le dichiarazioni individuali di Domenico Dolce e Stefano Gabbana. […] Non è dunque tutto risolto, come sostengono i difensori nell’inserzione a pagamento: la Gado, basata nel Principato, ha permesso che i proventi D&G fossero tassati all’estero; ma era un ologramma fiscale, visto che era di fatto gestita dall’Italia, un trucco societario per non pagare le tasse in patria”.

Un conto, chiarisce Barbacetto, è il procedimento penale, un conto è il procedimento tributario, che invece ha visto

“già condannati i due stilisti nel gennaio 2012 a pagare 343 milioni di euro di multa al fisco, con condanna poi confermata anche in appello dalla commissione tributaria di Milano”.

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