Luca Ricolfi sulla Stampa: “L’equivoco su moderati e radicali”

Luca Ricolfi sulla Stampa: "L’equivoco su moderati e radicali"
Berlusconi (LaPresse)

ROMA – “L’equivoco su moderati e radicali”. Questo il titolo dell’articolo a firma di Luca Ricolfi sulla Stampa in edicola oggi, 18 novembre:

Dunque, un’altra coppia politica è scoppiata. Dopo Monti e Casini, il cui matrimonio pare aver giovato più all’astuto leader Udc che all’inesperto professore, ora sono Berlusconi e Alfano a separare i propri destini. Presidente e segretario del Pdl, fino a ieri uniti nel medesimo partito, ora sono alla testa di due partiti distinti, Forza Italia e Nuovo Centrodestra (nome provvisorio, a quel che capisco).

Fu vera novità?

Non lo sa nessuno, ma forse lo capiremo presto, magari già alle elezioni europee (maggio 2014). Per ora, più che lanciarsi in profezie, mi parrebbe utile riflettere sulle parole che si usano. Le parole sono segnali importanti, non tanto perché hanno il potere di chiarire, ma perché, più spesso, hanno il potere di confondere.

Comincerei da due parole chiave, quella usata da Eugenio Scalfari per salutare la nascita del partito di Alfano, e quella usata da Berlusconi per definire l’elettorato della rinata Forza Italia.

Dunque, secondo Scalfari l’evento cui abbiamo assistito nei giorni scorsi è la nascita, finalmente in Italia, di una destra degna di questo nome.

Una destra che il fondatore di Repubblica non esita a chiamare «repubblicana», termine che le conferisce ipso facto una patente di serietà e di credibilità. E infatti Scalfari non esita ad aggiungere che lo strappo compiuto da Alfano «rappresenta una novità di grandissimo rilievo nel panorama della politica non soltanto italiana ma anche europea».

Sull’altro versante, quello della rifondazione di Forza Italia, Berlusconi fa un lungo e assai articolato discorso, il cui succo politico si potrebbe condensare così: in Italia i moderati sono maggioranza, e Forza Italia si ripromette di riportare sotto le proprie insegne la totalità dei moderati.

Dunque, due parole cruciali: finalmente una «destra repubblicana» (il Nuovo centrodestra di Alfano), di nuovo un contenitore partitico per i «moderati» (la neonata Forza Italia di Berlusconi).

A me entrambe queste definizioni paiono altamente fuorvianti. La definizione di Scalfari ha qualcosa di proiettivo: dato che mi piacerebbe vivere in un paese con una destra moderna, allora concedo la patente di modernità ad ogni tentativo di distaccarsi dalla malapianta del berlusconismo. Quella di Scalfari, del resto, più che una visione personale, pare essere il riflesso condizionato della cultura politica del nostro paese. Il medesimo riflesso portò un altro direttore di giornale, Paolo Mieli quando era alla testa del Corriere della Sera, ad invitare gli elettori del centro-destra a votare Casini e Fini piuttosto che Berlusconi. Ed è ancora il medesimo riflesso che, appena pochi anni fa, ha trascinato buona parte dell’informazione (specie quella schierata a sinistra) a venerare il «compagno Fini», come se il mero coraggio di staccarsi da Berlusconi potesse conferire una patente progressista o di grande uomo di Stato. Per non parlare dell’ultima tappa della stessa sindrome, il sogno di vedere Mario Monti alla testa di un centro-destra finalmente serio, moderno, europeo, ammesso nell’empireo della forze politiche rispettabili per il solo fatto di non essere inquinato da Berlusconi.

A me piacerebbe invece mettere una pulce nell’orecchio: siamo sicuri che quella di Alfano, più che una grande novità politica, non sia una variante del solito vecchio schema italico del trasformismo parlamentare? Nessuno ricorda le «truppe mastellate» che nel 1998 salvarono il centro-sinistra immolando il povero Prodi?

La sequenza è nota. Un governo traballa. Allora salta fuori qualcuno che si incarica di salvare governo, maggioranza e legislatura. L’operazione riesce, grazie a un più o meno massiccio spostamento di parlamentari da un versante politico all’altro. I nuovi si credono forti e numerosi, per un po’ vengono corteggiati dai giornali e dalle tv, ma alle elezioni successive si scoprono piccoli e irrilevanti. Da almeno vent’anni è questo il destino immancabile della manovre al centro, indipendentemente dal fatto che a farsene promotori siano Casini, Fini, Follini, Rutelli, Monti o chiunque altro. C’è sempre un manipolo di politici che sogna la resurrezione della Dc, il «grande centro», il «taglio delle ali estreme», ma quando si va alle urne si scopre che gli elettori disposti ad accompagnare il sogno oscillano fra il 10% e il 15%. (…)

 

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