Ilegales, film di Ric Dupont: traffico di uomini. donne e droga alla frontiera tra Messico e Texas

L’uscita di “Ilegales”, film indipendente diretto dall’americano Ric Dupont, non poteva capitare in un momento più azzeccato; o più compromettente. Questo film dalla sensibilità matura è intessuto di diverse fila, storie di uomini e donne, trame che, a prima vista, in comune non hanno altro che l’identità geografica.

Tutto si basa sull’oscillare delle vite, sul continuo andare e venire degli uomini al di là e al di qua di una frontiera – quella, fatta delle immense piane brulle e sperdute, tra Stati Uniti e Messico – o nelle città di confine dei rispettivi paesi – come Ciudad Juarez, terra di confine messicana, città sperduta come un avamposto romano dopo il Reno o come la Fortezza Bastioni del Deserto dei Tartari.

Qui si vive con una sensazione di provvisorietà, di ultima fermata prima del capolinea. Ma nel contempo questo luogo è marchiato dall’amara, tragica realtà di una povertà senza scampo, e di una violenza forse, senza retorica, mai vista nella storia dell’uomo. La vita dell’uomo a Ciudad Juarez vale davvero molto poco. Nella regione, secondo le statistiche della polizia, avviene un omicidio ogni ora. L’anno scorso era ogni 34 minuti. Un olocausto silenzioso a qualche chilometro dalle quiete e indolenti città del Texas.

Spinto da un cast capace, Ilegales riesce a gettare uno sguardo illuminante e commovente su quel traffico moderno di persone e di droghe che ogni notte si svolge su quella frontiera. Dupont riesce nel miracoloso equilibrio artistico di dare allo spettatore nel contempo la visione d’insieme, che squarcia un velo sulla realtà, e il tratto minuto, la pennellata che rende partecipi al personaggio e che ci fa credere nella finzione dell’arte. Questo film riesce a fare tutto questo, tenendosi lontano, e il merito non è da poco, dalla trappola della politica, senza mai cedere alla tentazione della cronaca, e diventare così uno sbiadito film a tesi, un ennesimo e presto dimenticato film engagè, privo di quella linfa artistica che non si trova mai nelle querelle politiche. Il film di Dupont non è in nessun caso un film sull’emigrazione messicana negli Stati Uniti in quanto causa politica; piuttosto è un film sulle esperienza delle persone di cui decide di raccontare la storia, e sulle istituzioni, sociali e legali, in cui esse sono costrette a vivere.

Nel film si intrecciano le vite di diversi personaggi. Come Ariel, che lavora in una fattoria, e il cui talento nascosto viene scoperto da Arturo, un coyote (colui che guida i clandestini nella traversata del confine) insolitamente onesto. Maribel è di Ciudad Juarez, fa le scuole serali mentre lavora di giorno come cameriera (e ogni giorno rischia la vita per il solo fatto di abitare a Ciudad Juarez) e sogna di poter un giorno varcare legalmente quella frontiera nonostante l’inestricabile groviglio delle vie legali che da sette anni la trattengono.

Ignacio, padre single di due bambine americane (perché nate sul suolo statunitense) vive dall’altra parte del muro, nel Nuovo Messico e si fa sfruttare ogni sera in una squallida tavola calda lavando piatti per molto meno del salario minimo. Chuy è anche lui un coyote, ma diverso da Arturo, deciso, implacabile; ad ogni attraversata affida agli emigranti uno zaino pieno di cocaina e pensa che sia “meglio” quando la polizia di frontiera ne becca uno o due alla fine del gruppo. Intorno a questi personaggi dalla vita precaria e movimentata come la frontiera su cui si muovono, si intravede un universo umano fatto di proprietari di ranch, di poliziotti, di semplici cittadini, comparse di questo ampio affresco di Dupont, un film che descrive un lembo di terra dove gli uomini sono come oggetti, merci nelle mani di altre persone, di altri destini, dove la vita di una persona ha sì un prezzo, ma ridicolo.

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