Terremoto, produzione “ferma 4-6 mesi”. Poi? Squinzi chiede soldi e teme la fuga

Pubblicato il 6 Giugno 2012 - 15:07 OLTRE 6 MESI FA

(LaPresse)

ROMA – “Uno stop alla produzione di 4-6 mesi” e una perdita di pil per il solo terremoto di poco inferiore all’1%. Il tutto, ovviamente, salvo altre scosse forti, perché ogni volta che la terra trema si ricomincia da capo con la paura, la fuga e la conta dei danni.  E cresce la tentazione di andarsene e ricominciare altrove. Non poche centinaia di metri più in là, ma in un “altrove” che è altra Regione o forse altro Stato.

L’ultimo allarme, sull’Emilia Romagna colpita dai terremoti, viene dal presidente di Confindustria Giorgio Squinzi che, nel giorno in cui il terremoto si sposta da Modena verso Ravenna, fa i primi conti sulla ricostruzione. Conti ancora approssimativi ma che bastano a fare paura. Il leader degli industriali pensa all’onda lunga del terremoto, gli strascichi del dopo, quando le scosse si saranno calmate e gli sfollati ricominceranno (in parte) a rientrare nelle loro case.

Il sisma, spiega Squinzi,  ha ”colpito una parte importante della produzione manifatturiera che deve ripartire al più presto anche per evitare qualche tentazione di delocalizzazione anche delle imprese straniere che operano in quell’area”.  Il ”bilancio ancora provvisorio” conta ”almeno 500 aziende con gravi lesioni, 5mila posti di lavoro a rischio, la minaccia che si perdano filiere importanti”.  Quindi le cifre: dai “4-6 mesi di stop”, ”almeno 500 aziende con gravi lesioni, 10 mila posti di lavoro a rischio, la minaccia che si perdano filiere importanti”, e il “rischio di perdere qualche frazione di pil”.

La richiesta è semplice: soldi il prima possibile e soldi a fondo perduto. Non si sta parlando di sconti, prestiti o sospensione dei pagamenti fiscali. Quello che il governo, in qualche misura, ha già fatto con il primo pacchetto di aiuti, quello finanziato in parte con i due centesimi di tassa sulla benzina. Squinzi chiede che lo Stato ci metta del suo, per ricostruire subito quei capannoni crollati e danneggiati. Capannoni che nella maggior parte dei casi non possono essere “rammendati”. Se non sono già crollati vanno demoliti e ricostruiti anche pochi metri più in là.  La preoccupazione è semplice e fondata: se chi deve ricostruire deve farlo a sue spese, tra terremoto, tasse e mancati aiuti può scegliere di farlo altrove, soprattutto se di azienda straniera trattasi. E come ha ricordato Squinzi, di aziende straniere ce ne sono molte e la tentazione della delocalizzazione può essere forte.

La domanda non formulata, quella cui non c’è ancora una risposta, è piuttosto: che ne sarà dell’Emilia? Cosa rimarrà delle filiere? Non è solo il parmigiano reggiano o l’aceto balsamico di Modena. Se si fermano le filiere del settore biomedico che cosa succede? Prendiamo un mese sufficientemente lontano, ottobre. Ovvero tra 4 mesi, quando, secondo Squinzi, nella migliore delle ipotesi la produzione potrà ripartire. Gli interrogativi non mancano: si tratta di capire quali fabbriche saranno pronte, a che livello di produttività e con quanti dipendenti rispetto al livello del pre-terremoto.

Così, i numeri del settore biomedico diffusi il 5 giugno dall’Ansa sanno già di feroce beffa. Settore in crescita, che vale 16,8 miliardi l’anno e che ha nell’Emilia una delle sue punte di diamante. Numeri tutti veri ma tutti risalenti a prima del terremoto. Adesso del biomedico di Mirandola, centro che da solo produceva un terzo dei prodotti per dialisi dell’intera Unione Europea resta davvero poco. I pazienti, almeno per un po’, possono rifornirsi altrove. Magari sopportando qualche disagio e forse costi aumentati. Per le fabbriche, invece, rischia di volerci più tempo. Stesso identico discorso per la produzione delle valvole aortiche. Ancora una volta per chi di quelle valvole ha bisogno si tratterà di sopportare qualche disagio. Per chi quelle valvole invece le produceva il futuro invece è ancora incerto.