La nuova Palestina: dalle pietre dell’Intifada al boicottaggio contro i prodotti delle colonie israeliane

Pubblicato il 28 Maggio 2010 - 11:15 OLTRE 6 MESI FA

Manifestazione palestinese

La Palestina lancia la sua nuova resistenza e il conflitto mediorientale assume i tratti di una guerra economica. Il premier palestinese Fayyad ha lanciato, infatti, il boicottaggio dei prodotti israeliani delle colonie. Una resistenza – dice – che colpisce Israele e fa bene ai nostri mercati.

I numeri. Un’operazione dai grandi numeri, se si pensa che le 177 colonie israeliane sono vere e proprie città con fiorenti attività ed è di oltre 500 milioni di dollari l’ammontare annuo dei commerci tra queste e gli arabi degli ex territori. Per finanziare il boicottaggio delle merci prodotte dalle colonie, infatti, si è dovuto ricorrere a 1,5 milioni di dollari, raccolti in massima parte nel settore privato. Da parte sua, intanto, la Palestina ha visto crescere la propria economia nel 2009 del 7 per cento e il suo primo ministro nè di Hamas nè di Fatah, ex Banca Mondiale, vuole lanciare una nuova sfida per il futuro del Paese. Salam Fayyad ha intenzione di mettere in campo un programma innovativo che segni in un certo senso il passaggio a un sistema più vicino allo stile “Fondo Monetario” che non alla vecchia resistenza armata dell’intifada.

Il boicottaggio. Tre mesi fa, dunque, l’ultima scommessa: il governo dell’Autorità Palestinese lancia il suo boicottaggio verso i beni di consumo prodotti negli insediamenti israeliani. Insediamenti illegali e al centro della lotta con il paese ebraico. E’ escluso invece dall’operazione il commercio con lo Stato di lsraele, che è legale in quanto riconosciuto dagli accordi internazionali fin qui firmati, mentre gli insediamenti sono illegali e costituiscono il principale oggetto di lotta. Considerare illegali anche i prodotti di quelle colonie non riconosciute è l’obiettivo del governo di Fayyad, in una campagna che è partita anche in vari Paesi europei. A guidare tutta l’iniziativa è stato creato un apposito istituto, Karameh, che ha elaborato anche una lista dei prodotti da sabotare indirizzata alla popolazione. C’è di tutto dalla frutta, al latte, fino a computer, telefonini, mobili e, in particolare, materiale di costruzione.

I negozi arabi vengono visitati a uno a uno dagli ispettori di Karameh, ogni settimana ci sono grandi fuochi per distruggere il materiale sequestrato, dove in giacca e cravatta si affaccia regolarmente anche il Primo Ministro, che fa il suo simbolico lancio, spiega Lucia Annunziata su La Stampa, che riporta il racconto di Ghassan Khatib, stretto collaboratore di Fayyad e suo portavoce: «L’idea è quella di trovare un differente modo di fare resistenza. Invece delle armi, noi abbiamo individuato protesta pacifica, che si intrecci con lo sviluppo delle strutture del nostro futuro Stato», dice. La protesta «è legale, in quanto non contro Israele, ma può far male agli insediamenti. Nel frattempo questo boicottaggio apre nuove opportunità al nostro settore privato, che ha così modo di sviluppare il mercato interno».

Protesta e costruzione dello Stato. L’obiettivo fondamentale non si limita quindi alla protesta, ma è quello di sostenere il progetto di «costruzione dello Stato» e delle sue infrastrutture nazionali: «Case, banche, strade, servizi, fogne, questo programma da oggi fa della Palestina un grande cantiere con grandi opportunità per tutti». Ma è anche un’idea politica, dice ancora Khatib: «Quando lo Stato sarà pronto, chi potrà negarcelo? La comunità internazionale certo ci aiuterà».

Salam Fayyad, dalla Banca Mondiale alla Palestina. Ma chi è il primo ministro dello stile “Banca Mondiale”, più economico che ideologico? Nato nel 1952 vicino a Tulkarem, si laurea all’Università americana di Beirut, prende un Mba all’Università di Austin, Texas, insegna in Giordania, viene chiamato alla Banca Mondiale (1987-1995) e poi, fino al 2001, è il rappresentante palestinese al Fondo Monetario. Quando torna nei Territori, come direttore della Arab Bank, la seconda Intifada è già finita. Quando, tra il marzo e il maggio del 2002, Arafat è messo sotto assedio, Fayyad va a trovarlo, come molti altri – ma a differenza degli altri rimane con lui per tutto il tempo, unico della società civile a fare questo gesto. Arafat sceglie proprio il direttore di Banca per il ruolo di Ministro delle Finanze, mantenuto poi in quasi tutti i governi. Non è un percorso semplice, viene spesso attaccato dalla sua stessa parte politica, ma anche da Hamas, che lo considera un filoamericano. Primo Ministro brevemente nel 2007 dopo la rottura con Hamas, è oggi di nuovo in carica dal 2009. Per il suo insediamento il congresso americano ha dotato l’Autorità Palestinese di 200 milioni di dollari.

La Banca Centrale Palestinese: un programma secondo le regole del mercato. In cambio – spiega la Stampa – Fayyad ha presentato il suo programma di ricostruzione dello Stato Palestinese, secondo le regole del mercato e delle autorità internazionali, come il Fondo Monetario.  Jihad Al Wazir, Governatore della nuovissima Banca Centrale Palestinese (ufficialmente è Autorità Monetaria Palestinese perché lo Stato Palestinese non esiste) parla del primo intervento di Fayyad: il consolidamento delle banche, passate da 50 a 19 in un anno, e il microcredito aperto nelle zone rurali. Un Paese in crescita che è in grado di fare business come abbiamo visto, considerati anche il rapporto nella formazione del bilancio dello Stato fra donazioni e attività produttiva: «Nell’ultimo anno – spiega – questo rapporto ha visto scendere il peso delle donazioni del 30%, compensato dal contributo locale ».

Risultati importanti anche nella formazione di ranghi statali: oggi la Palestina ha 160 mila dipendenti, comprese le forze di sicurezza. «E la sicurezza, come si sa – dice il Governatore – è il prerequisito per ogni investimento». Il cambiamento ha coinvolto anche la capitale Ramallah, passata da ex villaggio a città in cui si affollano grattacieli, palazzi di uffici, condomini di lusso, nuovi quartieri e locali.

La politica non lo ama. Per quanto riguarda l’opinione della politica su Fayyad, spiega Mahdi Abdul Hadi, analista e direttore dell’istituto di studi Passia «nella nostra politica si mischiano, e si condizionano, cinque elementi: Fatah, Hamas, la società civile, Abu Mazen e Fayyad. Il risultato finale uscirà dall’impatto di questi elementi fra di loro. Hamas considera il Primo Ministro un uomo degli americani, e su di lui ha posto il veto. Fatah non lo vede certo bene: ci sono troppe ambizioni per raccogliere l’eredità di Arafat, e ci sono ancora i vecchi signori dell’Olp che mantengono le loro zone di influenza, stanno a guardare Fayyad ma non si pronunciano».

C’è chi inoltre crede che le misure del premier siano buone ma non sufficienti alla “causa palestinese”.A crederlo è lo stesso nipote di Arafat, Nasser Al Qudwa. «Fayyad – dice – sta facendo uno straordinario lavoro da Ministro dell’ economia, ma involontariamente, e sottolineo questo aggettivo, la sua posizione può offrire il fianco ai nostri nemici. La sua non è una politica. La costruzione dello Stato va bene, ma non può venire prima della conquista dello Stato».