Come fu che Carlo De Benedetti concepì il suo grande disegno editoriale e come si infranse, un racconto inedito - Blitzquotidiano.it (nella foto Carlo e Rodolfo De Benedetti)
Come fu che Carlo De Benedetti concepì il grande disegno editoriale? È una storia che va raccontata per rendere onore a un genio che ha visto il suo sogno infrangersi sulle ambizioni di un figlio infelice e su uno sconfinato quanto nascosto amore paterno.
Ho già ricostruito l’inizio della ultima parte, la formazione del gruppo che sarà Gedi dopo il passaggio agli Agnelli. Ora vediamo come ebbe inizio.
De Benedetti si affacciò alla ribalta della grande finanza italiana nei primi anni ‘70, quando aveva poco più di 30 anni. Aveva fatto prime armi nella fabbrica del padre Rodolfo, la Flexider, alla periferia est di Torino, dopo essere rientrato dalla Svizzera alla fine della guerra. La famiglia De Benedetti vi si era rifugiata psssando il confine a piedi, le mani in tasca come comuni turisti ma nel cappotto del padre cuciti quei diamanti che li avrebbero salvati dalla fame durante l’esilio.
La Flexider produceva tubi di metallo che vendeva non a quintali ma a metri. Carlo e i suoi primi colleghi scaldavano i tubi e li stiravano per allungarli. Carlo non era uomo di fabbrica ne di azienda, ma di marketing e di finanza, come poi ho constatato io stesso, anche se la sua superiore intelligenza gli fa conoscere tutti i segreti delle regole aziendali.
Carlo propose al padre di aprire un ufficio a Milano ma il padre, profondamente torinese, disse no. Fu rottura e l’inizio di una folgorante ascesa.
Io vidi Carlo De Benedetti la prima volta nel 1974, quando era presidente degli industriali torinesi. Era un concentrato di energia fisica e intellettuale. Era instancabile, mai si concedeva una pausa, ricorderà Claudio Calabi, che fu suo assistente 10 anni dopo.
L’incontro ebbe luogo nel suo ufficio alla Unione Industriale a Torino. Ero andato al soglio con Giovanni Giovannini, mio datore di lavoro, e Giorgio Fattori. Stavamo preparando un mensile, l’Economico, da inviare gratuitamente a dirigenti Fiat e industriali piemontesi, con Fiat e Unione a sostenere i costi.
De Benedetti in un ricordo personale
Mi permetto una nota personale. Attorno alla rivista incontrai Luca Montezemolo e Alain Elkann, che in modi diversi sarebbero stati decisivi nella mia crescita futura.
Arriviamo al 1976 col meteorico passaggio in Fiat, i suoi 100 giorni. Ma questa è un’altra storia cui dedicare un articolo a parte.
Segue l’ingresso in Olivetti e l’inizio di questo capitolo. Quando Umberto Agnelli gli chiese perché avesse favorito l’ex amico nella attribuzione della Olivetti, Gianni Agnelli rispose senza esitare: “Perché è il più bravo”.
De Benedetti trasformò l’Olivetti da fabbrica di macchine per scrivere a produttore di computer: l’M24 uscì poco dopo i primi prototipi americani.
Qui si accende l’idea di combinare ai computer l’informazione, teorizzata in un convegno organizzato a Venezia da Giovanni Valentini, direttore dell’Espresso.
De Benedetti era già azionista del settimanale. Era entrato fra gli azionisti nei primi anni ‘80, quando l’azienda rischiava il fallimento.
Era successo che Carlo Caracciolo, principale azionista e editore, inseguendo il sogno di un grande editore di affiancare alle testate (accanto allo storico settimanale erano entrati Tirreno, Nuova Sardegna e Provincia Pavese) la struttura per la raccolta pubblicitaria, aveva comprato la concessionaria Manzoni. Era stato un disastro perché il principale cliente di Manzoni era l’Eco di Bergamo, di proprietà della Curia vescovile. Non parve accettabile che la pubblicità dell’Eco fosse venduta in abbinamento col settimanale che aveva profanato la Croce durante la campagna per l’aborto (il direttore Livio Zanetti pubblicò in copertina il fotomontaggio di una donna incinta nuda e crocifissa). L’Eco non rinnovò la concessione. Venne meno un gettito importante e la Manzoni portò L’Espresso editore in cattive acque da cui uscì grazie a De Benedetti.
De Benedetti aveva capito da tempo l’importanza dei giornali e del partito comunista per un outsider dell’ordine costituito in Italia dopo la guerra.
La stessa intuizione ebbe Caracciolo
La differenza fra i due era che a Caracciolo importava solo dí fare l’editore, quasi come a Gianni Agnelli che infatti un po’ lo invidiava. Mentre per De Benedetti, che ne era sedotto pur non capendone fino in fondo l’anima, i giornali erano strumenti di un gioco più grande, la politica, che però lui non ebbe mai il coraggio di affrontare, a differenza di Berlusconi.
Ma nel genio l’intuizione non è mai monocratica. A me ora interessa analizzarne un aspetto, che porto al progetto della Grande Mondadori.
A metà degli anni 70 De Benedetti, al fine di liberarsi delle scorie della torinesita, aveva iniziato a frequentare Roma. Così fece amicizia con Eugenio Scalfari e con Claudio Rinaldi. Il rapporto con Scalfari, allora fraterno e forse rafforzato da qualche fortunata incursione in Borsa, gli apri le porte dell’Espresso.
A Caracciolo venne un mezzo infarto. Ricordo un mattino di buon’ora, appena sceso dall’aereo a Ciampino, in macchina contro mano sull’Appia chiusa alle auto, passando davanti alla villa dove il cognato dormiva convalescente, l’Avvocato esclamare divertito: “Mi dicono che ormai De Benedetti e Scalfari fanno tutto loro. Caracciolo non conta più nulla”. Non sarebbe stato così fino alla morte del principe mentre De Benedetti, caso unico nella sua vita, ebbe la capacità di frenare la propria impazienza e aspettare gli 80 anni dell’altro Carlo e i suoi 71 per assumere la presidenza del gruppo che nel frattempo si era formato.
Ma per uno come De Benedetti un settimanale per quanto importante e mezza Repubblica (l’altra metà era della Mondadori). Nella sua fervida mente il progetto era più ambizioso: mettere assieme la proprietà di Repubblica, giornale che a quei tempi poteva fare cadere un Governo, i due grandi newmagazines, Panorama e L’Espresso, una catena di settimanali femminili e gossip, una catena di quotidiani locali, un grande editore di libri, un nascente gruppo di radio commerciali. Il tuo tenuto insieme dal grande produttore di computer italiano, capace di giocare sul tavolo americano.
L’occasione si presentò con la morte prematura di Mario Formenton, gran personaggio anche lui, un veneto nato a Teheran che forse coltivava le stesse ambizioni. La sua morte coincise con la crisi della Mondadori, soffocata dalla burocrazia e portata a fondo dall’ingresso nella televisione.
La struttura finanziaria architettata da Enrico Cuccia e da Mediobanca per salvare la Mondadori ebbe come conseguenza l’ingresso nel tempio di via Bianca di Savoia e nel palazzo di Oscar Niemeyer a Segrate dei due eterni rivali, Carlo De Benedetti e Silvio Berlusconi.
Ho già raccontato alcuni dettagli inediti della contesa che ne seguì , nota come guerra di Segrate.
Qui mi basta spiegare perché quel sogno non si realizzò se non in parte.
1 La Olivetti uscì dal portafoglio di De Benedetti ma la sostituì internet, che è molto meglio e ci fa vivere ancora oggi;
2 Berlusconi fece saltare il giocattolo. Se si fosse completato il disegno, in mano a un editore vicino ai comunistici si sarebbe concentrata una tale potenza di fuoco informativo da impedire al socialista Bettino Craxi di dormire. All’epoca, due anni prima di Mani Pulite, non sapevamo che non sarebbe stato sufficiente;
3 Non lo sapeva nemmeno Giulio Andreotti, che non voleva quel che non voleva Craxi ma non voleva nemmeno che tutto finisse il nano a Berlusconi, le cui reti Tv erano peraltro viste da quasi metà degli italiani, al pari delle tre reti Rai.
Fu così che, evocato da Caracciolo che ne era amico, entrò in scena Giuseppe Ciarrapico per conto di Andreotti, imponendo la spartizione: a Berlusconi tv e libri, a De Benedetti i giornali e le radio.
Fu in quel periodo che si manifestarono i primi segni della grandezza di Sergio Mattarella: ebbe la forza di lasciare un posto da ministro per protesta contro Berlusconi. Il quale nel seguito non perse occasioni per fargliela pagare. Ma alla fine ha vinto il giusto e Mattarella è presidente della Repubblica.
