Il fiume Giordano conteso: storia di “colui che scende” alla morte

di Veronica Nicosia
Pubblicato il 22 Gennaio 2011 - 07:00| Aggiornato il 1 Agosto 2011 OLTRE 6 MESI FA

Il percorso di ‘colui che scende’ è frastagliato e tortuoso, come gli animi dei popoli che incontra, le cui vite sono afflitte da guerre che si nascondono dietro al nome di un Dio ed alle differenze culturali, ma che sono solo il frutto di delicati e instabili equilibri politici ed economici.

‘Colui che scende’ sembra saperlo, sembra comprendere l’aridità e il marcio del mero potere, lui, il fiume Giordano, sembra riflettere la salute di una valle, la salute ormai andata, inquinato e depauperato di ogni risorsa vitale. Riflette morte, niente più.

Il Giordano, il fiume più basso del mondo, scorreva placido e rigoglioso nelle terre della Valle di Giordania. Il fiume descritto nelle sacre scritture come ‘traboccante’ di acque ad oggi altro non è che un misero torrente, che ha perso oltre il 95 per cento delle acque utilizzabili e ch per questo rischia di scomparire per sempre.

Profeti dell’ambiente già nel 2007 dichiararono il rischio di morte di tale fiume, includendolo nella lista dei cento posti nel mondo che rischiano di scomparire, ma ora il pericolo sembra essere arrivato ad un punto cruciale: non esistono più grigi nella scala di colore che ne dipinge il futuro, una bianca vita o una nera morte, questo è il suo destino per il 2011.

I fiumi da sempre rappresentano le culle della vita, i portatori di acqua che hanno ospitato e cresciuto le prime civiltà, e la loro morte non è altro che un sintomo di profondo disagio per l’ambiente e per la salute delle popolazioni, la cui vita da esso dipendeva.

I placidi tentativi di rassicurare sulla salute di un ecosistema prossimo al collasso non convincono neanche il vicepremier israeliano Silvan Shalom, che in occasione dell’epifania ortodossa ha disposto la riapertura dell’area C della zona militare di Israele, sede della biblica Ennon dove Gesù fu battezzato, a 42 anni della sua chiusura, dichiarando cautamente: “è un esperimento, vediamo se dura”.

Infatti secondo Mira Edelstein, della sezione israeliana degli Amici della Terra, “l’apertura del sito di Qasr El-Yahud è una buona notizia, se sarà definitiva, ma non cambia le cose. Abbiamo lanciato l’allarme 2011, perché potrebbe essere davvero l’anno dell’agonia. Il governo israeliano sta costruendo un depuratore, dopo tanto tempo. Da un lato è un bene: basta con gli scarichi fuorilegge. Dall’altro è un rischio: quando l’impianto entrerà in funzione, le acque depurate non saranno restituite al Giordano, ma verranno portate via e usate altrove”.

Il Giordano è un fiume conteso e non condiviso. Il 54 per cento è della Giordania, territorio con il più basso valore di disponibilità idrica pro capite nel mondo, che accusa la Siria, che ne detiene il 30 per cento, della mancanza di risorse idriche che hanno portato il paese ad uno stato di perenne siccità.

La Siria invece imputa alla Turchia ed alla cattiva gestione dell’affluente Yarmuk, che si origina dall’Eufrate, la mancanza di acqua. La Palestina attacca Israele, con cui ne condivide il 14 per cento, sostenendo che lo stato ebraico approfitta dell’80 per cento delle risorse, mentre Israele a sua volta si giustifica imputando alla Siria gli abusi della oramai poca acqua disponibile.

Ci si chiede ora come sia possibile salvare ‘colui che scende’ alla morte, colui che lentamente e inesorabilmente scorre verso un punto di inquinamento e depauperazione tale da ridurne a zero le aspettative di vita. Salvare il Giordano non è facile: non basta stabilire le cause ambientali, non lo salverà trovare nel lago Tiberiade o dalla desalinizzazione del Mar Morto quantità di acqua tali da aumentare la sua portata, che da 1,3 miliardi di metri cubi di acqua l’anno si è ridotta ad appena 100 milioni.

Non sarà sufficiente l’installazione di impianti depurativi che ne renderanno l’acqua limpida, pulita e finalmente di nuovo utilizzabile, fintanto che ognuna di queste possibili soluzioni sia ulteriore motivo di lite e di tensioni tra i diversi governi, che mai hanno cessato di darsi battaglia.

“Tutti i Paesi dovrebbero comportarsi in modo più responsabile – ha spiegato la Eldstein – ma soprattutto dovrebbe farlo Israele, che usa la metà delle risorse. L’hanno intimato anche gli Stati Uniti e l’Unione Europea. Qualcosa si sta muovendo: ci sono delegazioni israeliane, giordane e siriane che s’incontrano. Se non s’incontrano anche i leader, però, non ci saranno mai risultati”.

Nella storia già i piani Lowdermilk, Johnston o Eisenhower, il cui intento era creare un’autorità comune e sovranazionale nella valle di Giordania, fallirono. Poi le conferenze di Vienna, di Pechino e dell’Oman. Piani e conferenze che non hanno scosso le coscienze dei potenti, i quali non risentono certo dei disagi del vivere senz’acqua, loro che possono contare su pozzi personali ed hanno soldi sufficienti ad assicurarsi il diritto alla vita.

Che senso ha il gioco dei governi nell’incolparsi reciprocamente, il perdere tempo di fronte ad una situazione di emergenza cercando nell’altro le colpe e negando l’evidenza delle proprie. La condivisione di un bene tanto prezioso, il rispetto per la vita in ogni sua forma dovrebbe muovere questi popoli ‘dimorati di Dio’ alla collaborazione, per la sopravvivenza e per il bene dell’ambiente, ma soprattutto della popolazione.

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