Morto Riccardo Carovino: giornalista perbene, stile genoano

Morto Riccardo Carovino: giornalista perbene, stile genoano
Riccardo Carovino, è morto a 86 anni, dopo una vita dedicata al giornalismo migliore

GENOVA – Riccardo Carovino, giornalista di un’epoca che non c’è più, è morto a Genova a 86 anni di età. Ne dà notizia il Secolo XIX, con un pezzetto delicato e un po’ commovente:

“Un grande esperto di pallanuoto, un tifoso del Genoa viscerale e pessimista come solo i vecchi genoani sanno essere, una penna leggera e raffinata: Riccardo Carovino, storico collaboratore delle pagine sportive del secolo XIX è mancato a 86 anni dopo una lunga malattia che da tempo lo aveva costretto in casa senza fargli perdere i contatti con gli avvenimenti di attualità e le amicizie”.

Riccardo Carovino è stato qualcosa di più per il giornalismo genovese, una rara figura di quelle che si trovavano nella migliore provincia italiana. Era genovese nella sua migliore essenza: per bene fino allo scrupolo, per bene fin nel midollo, buon senso, senso comune, spirito critico, la capacità di ricordurre drammi, tragedie e entusiami eccessivi alla dimensione di un uomo normale.

Era una figura di spicco, faceva opinione, tanto appassionato quanto per niente fazioso. La sua arma era il buon senso, merce rara allora come oggi. Aveva giocato a basket, sapeva interpretare il calcio sul campo e fuori, una versione provinciale e molto genovese dell’approccio multiculturale e assai flamboyant di Gianni Brera, il mostro sacro. Il suo stile era più simile a quello di Gino Palumbo, una evoluzione di un altro dominus del giornalismo sportivo genovese, Renzo Bidone. Bidone, ragazzo del ’99, era capo dello Sport e segretario di redazione del Corriere del pomeriggio, giornale che usciva al lunedì, giornale tanto genoano che quando il Genoa scivolò in serie C chiuse. Ci furono altre cause, ma mi piace pensare solo a quella.

Riccardo Carovino non era giornalista professionista, non era andato mai oltre la tessera verde da pubblicista, perché le incertezze che in quegli anni rendevano il giornalismo un mestiere molto precario lo avevano indotto a restare ancorato al suo solido posto in banca, al Credito Italiano (oggi mutatio in Unicredit), figlio unico di una madre molto anziana. Lo chiamavi di giorno in ufficio e rispondeva quasi sempre lui: “Pronto Credito!” con voce squillante, un po’ di erre arrotata, l’entusiasmo di una persona per bene.

Ne capiva più di tanti conclamati professionisti, di calcio, di sport, di giornalismo. La sua base era un bar di piazza Manin, in circonvallazione a Monte, frequentato da una buona borghesia professionale, il telaio di una Genova che non è più. Scriveva benissimo in italiano, meglio di tanti che lo facevano di mestiere e conosceva bene anche il dialetto genovese e quel po’ di letteratura in cui spicca la traduzione della Eneide fatta da Nicolò Bacigalupo.

Riccardo Carovino ha rappresentato molto anche per la mia vita. È stato il mio primo direttore, in un giornalino da 5 mila copie settimanali che si chiamava lo Sprint, era edito dal Centro Sportivo Italiano e radunava le cronache di tutti gli sport minori della provincia di Genova, non solo il calcio ma la pallavolo, la pallacanestro, la scherma, l’atletica. La storia dello Sprint si perdeva nella notte dei tempi per un liceale come me, un’età in cui ieri è il pleistocene, la storia del mondo ha inizio alla tua prima Comunione. Avevo 17 anni, facevo la seconda liceo, volevo disperatamente fare il giornalista a disprezzo di una recessione che questa di oggi le fa un baffo, giornali che chiudevano e gli anziani che ti consigliavano un bel posto all’Ansaldo o in banca.

Sognavo Jacques Prévert ma Guido Coppini, grande giornalista di una provincia che non c’è più, il cui pseudonimo, Sergio Carli, Blitz ha adottato, mi diede il consiglio giusto: datti allo sport. Non capivo niente di sport, tenevo in un certo spregio gli sportivi praticanti, in totale spregio i tifosi, ma capii che era un mercato immenso per un giovane aspirante giornalista. Un mio compagno di scuola un po’ più grande, Gianluigi Corti, si occupava di pallavolo e mi incaricò di portare alle redazioni dei giornali genovesi i risultati della domenica: Corriere del Pomeriggio, Gazzetta del Lunedì e poi anche settimanali che non ci sono più, Genova Notte e un altro paio di cui non ricordo la testata. Al Secolo no: era troppo su, inavvicinabile.

La mia base era la sede del Centro Sportivo, vuota la domenica e fredda d’inverno. Mi facevo aiutare da un paio di compagni di classe. Carovino mi notò, mi propose di fare il capo redattore dello Sprint. Mi davano ogni tanto 5 mila lire al mese.

Altri miei compagni di scuola si unirono a noi, c’erano Adriano Mancini, Giamba Mattarana, Dario Soffiantino,Toto Canepa (giovane medico, fu il primo a lasciarci, in piena gioventù). Poi ricomparvero le “vecchie” firme storiche dello Sprint. Sembrava preistoria, avevano pochi anni di più. Ricordo Vittorio Sirianni, allora effervescente giovane dirigente della direzione immagine della Italsider, ancora oggi attivissimo, ricordo Francesco Lalla, giovanissimo pretore a Voltri, in tempi più recenti Procuratore capo della Repubblica a Genova.

Per me seguirono anni emozionanti e di dura fatica. La settimana corta per i giornalisti arrivò anni dopo. Erano 7 giorni su 7, 30 su 30, rarissime le fughe con Isabella, amata profondamente e erraticamente. Negro di Renzo Bidone (fui il penultimo, il primo era stato Renato Tosatti il più bel complimento era quando i vecchi mi paragonavano a lui) che occupava metà delle corrispondenze da Genova e fu per me una favolosa palestra, dalla cronaca allo sport, dovetti imparare a scrivere i risultati del tennis, abusivo poi praticante al Cittadino, la redazione dell’Ansa di Genova, professionista nel 1967.

Rividi Riccardo Carovino nel 1985, con un gruppo di amici e colleghi di quegli anni, Aldo Repetto, Luisella Aligata, Guido Mariotti, Bepi Castelnovi eravamo tanti in quella trattoria di Voltri. Vivevo già a Roma, ero andato all’Espresso dopo 2 anni a Londra (Ansa) e 10 a Torino (Fiat e Stampa).

Fu una serata commovente, emozionante, indimenticabile. Però non ci siamo più visti né sentiti, a dispetto delle più fervide intenzioni.

L’ho sempre tenuto nel cuore il ricordo di quei primi anni, di quel personaggio un po’ curvo anche se aveva, calcolo oggi, solo 15 anni più di me, quindi ne aveva appena 32: i capelli lunghi e già radi, l’andatura un po’ caracollante come i camerieri, rarissime e brevissime vacanze, compresse fra il calcio d’inverno e la pallanuoto d’estate.

Un anno che, non ricordo più perché, apprese che durante l’estate non avrebbe seguito la Pro Recco, cosa che comportava la fine di trasferte in treno faticose ma gratificanti a Recco, che si concludevano in pantagruelici dopo partita a base di focaccia col formaggio alla Manuelina o da Vittorio. L’auto era un lusso, le strade precarie, ci si spostava in treno da un campo di pallanuoto all’altro, lungo la costa, da una riviera all’altra. Giocavano in mare, nei porticcioli (Nervi, Camogli) o davanti alla spiaggia (Recco, Pra, Voltri) in campi scontornati da sugheri multicolori, circondati da barche con i remi sempre in aria, da cui era facile anzi probabile che qualcuno scivolasse in acqua.

Carovino si disperò, ma con humour: “Addio focaccia col formaggio” si lamentava, facendo il verso al poeta Giuseppe Ungaretti.

Mi ha segnato a fondo il suo senso delle proporzioni. Ricordo che in quegli anni ’60 scoppiò uno scandalo nel calcio inglese, scoprimmo che anche gli inglesi si vendevano le partite. Fu liberatorio per noi giovani italiani di provincia, oppressi dal senso di vergogna collettivo degli italiani ladri e corrotti, come oggi.

E poi il rispetto dei valori, per i vecchi, per chi ha fatto qualcosa di utile, ma senza esagerare mai, tutti abbiamo i nostri limiti.

In questi 30 anni ho chiesto più volte notizie a Franco Manzitti, una volta a Giancarlo Piombino, altra figura decisiva nella mia vita, amico di quartiere di Carovino. Stava bene, continuava a scrivere. Non sono stato mai capace di cercarlo. Forse avevo paura che si rompesse quella esilissima e magica trama di ricordi, chissà quanto deformati dal mito che ognuno di noi si fa del proprio passato.

Chiuse il Corriere del Pomeriggio, il mio primo giornale vero, con le rotative che pulsavano come il cuore di un super uomo, le linotypes che cantavano come Trilli a ogni lettera composta sopra il bacino del piombo fuso, le foto osé sui muri dell’antro della spedizione da cui uscivano nel cuore della notte omoni che non credo di avere mai più visto dopo la fine del piombo.

Carovino, snobbato per anni, si impose, il Secolo XIX lo ingaggiò, ora, giustamente, lo piange:

“Attaccatissimo alla famiglia, lascia la moglie Diana, i figli Lorenzo e Emanuela con il nipote Giovanni. I funerali si svolgeranno mercoledì mattina alle 11.45 nella chiesa di San Nicola, in corso Firenze, a Genova”.

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