“Totò Riina voleva uccidere Giulio Andreotti e suo figlio”: il pentito Onorato al processo Stato-mafia

di Redazione Blitz
Pubblicato il 7 Novembre 2013 - 19:55 OLTRE 6 MESI FA
"Totò Riina voleva uccidere Giulio Andreotti e suo figlio": il pentito Onorato al processo Stato-mafia

“Totò Riina voleva uccidere Giulio Andreotti e suo figlio”: il pentito Onorato al processo Stato-mafia (foto Ansa)

PALERMO, 7 NOV – Toto Riina arrabbiato con lo Stato perché “l’aveva mollato” dopo avergli commissionato omicidi importanti, come quello di Carlo Alberto Dalla Chiesa, “voluto da Craxi e Andreotti”; i piani di Cosa Nostra per uccidere Giulio Andreotti, suo figlio, Carlo Vizzini, Calogero Mannino, imprenditori come Ferruzzi e Gardini (poi morto suicida), i cugini Salvo, Salvo Lima (poi uccisi dalla mafia): lo racconta il pentito Francesco Onorato, testimone al processo per la trattativa Stato-mafia in corso a Palermo.

“Sapete perchè Totò Riina accusa lo Stato? Perché prima gli hanno fatto fare le cose e poi l’hanno mollato”. È un Riina arrabbiato e pronto ad ammazzare politici e rappresentanti delle istituzioni, quello descritto da Onorato. Un racconto il suo pieno di rivelazioni inedite: come quella del progetto di Cosa nostra di uccidere l’ex presidente del Consiglio Giulio Andreotti e il figlio.

Dopo il maxi-processo, conclusosi con decine di ergastoli definitivi, il padrino di Corleone stila una lista di nemici da abbattere: personaggi prima ritenuti amici, poi accusati di non avere mantenuto i patti. Un elenco lungo ricordato in aula da Onorato che, dopo una prima esitazione e la richiesta, respinta, di rinviare la deposizione per motivi personali, sciorina ai giudici della Corte d’assise tutti gli obiettivi del capomafia. “C’erano Carlo Vizzini – avevamo fatto anche i pedinamenti preliminari all’omicidio – dice – Calogero Mannino, Salvo Lima, i cugini Salvo, Giulio Andreotti e il figlio e imprenditori come Ferruzzi e Gardini“.

Dell’eliminazione dell’ex premier e del figlio si sarebbero dovuti occupare i boss Giuseppe e Filippo Graviano a Roma. “Ma poi – racconta il pentito – gli aumentarono la scorta e saltò tutto”.

“Riina era arrabbiato – ricorda il teste – perché prima gli avevano fatto fare cose, come l’omicidio Dalla Chiesa. L’avevano voluto Craxi e Andreotti, mica la mafia. Poi quando l’opinione pubblica scese in piazza i politici si nascosero. Per questo Riina li voleva uccidere tutti”.

A fare le spese dell’ira del boss fu Salvo Lima, l’eurodeputato dc, ucciso da un commando di cui faceva parte Onorato il 12 marzo del 1992. Un delitto che, per i pm del processo sulla trattativa, segna il primo atto della strategia di sangue con cui Cosa nostra convinse pezzi dello Stato a trattare.

Il collaboratore ricevette l’ordine di eliminarlo dal luogotenente di Riina, Salvatore Biondino. “Mi rimproverò pure – racconta – perché non avevo ucciso i due uomini che erano con lui. Ma io non me l’ero sentita e avevo deciso di graziarli”.

Onorato, una “carriera” di 20 anni in Cosa nostra, si presenta così: “Fare parte del gruppo di fuoco della commissione di Cosa nostra era come fare parte della Nazionale di calcio. Ci entravano persone con capacità particolari. Da componente del gruppo di fuoco ho fatto tra l’altro l’omicidio dell’eurodeputato Salvo Lima, quello del collaboratore del Sisde Emanuele Piazza, ho partecipato al fallito attentato dell’Addaura”.

Onorato è certo che politica e mafia hanno sempre convissuto. “Quale trattativa – dice – c’è stata sempre connivenza”. Un esempio? Sarebbero stati non meglio precisati politici a spingere i mafiosi a mettere in giro la voce che a mettersi la bomba vicino alla casa al mare all’Addaura era stato lo stesso Falcone. “Ci era stato detto di dirlo – spiega – per indebolire Falcone”.

Molte cose il pentito le ha apprese proprio da Biondino e non conosce maggiori particolari. “Perché non ha raccontato tutto questo prima, visto che collabora da 16 anni?”, gli chiede un avvocato. “Nel dire certe cose – risponde – si rischia di restare soli. Come sono io adesso. Solo e abbandonato dallo Stato”.

La deposizione è intramezzata da un mistero, poi chiarito, sulla lettera che il capo dello Stato Giorgio Napolitano, citato come teste dai pm, ha spedito al presidente della corte d’assise, manifestando la sua disponibilità a testimoniare. In apertura d’udienza il giudice Alfredo Montalto comunica di non averla mai ricevuta: la notizia della missiva era stata resa nota dallo stesso Quirinale venerdì scorso. Dal Colle si fa sapere che la lettera è stata spedita giovedì. Dopo un controllo il presidente rettifica e dice in aula che la lettera è arrivata al suo ufficio stamattina. “Dopo averla esaminata – spiega – valuteremo se metterla a disposizione delle parti”.