La quadriglia delle Due Crisi: quella di governo e quella del debito

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Tremonti, Bossi e Berlusconi

I giornali italiani raccontano e scrutano, con passione da entomologo e con entusiasmo e pignoleria maniacali, il frullar d’ali e il volo nervoso dei protagonisti della politica. Sottopongono al microscopio gli umori del premier, il suo mormorare “Chi ha sbagliato deve pagare”, la sua attesa ed esitazione a sostituire Scajola con altro ministro, il suo prepararsi a “qualcosa”.

“Qualcosa” che potrebbe essere una “Nuova Tangentopoli”, oppure una rottura, nei fatti e non solo nelle parole, con Fini e il suo pattuglione di parlamentari. Oppure una nuova alleanza con Casini. Oppure e ancora il “qualcosa fine di mondo”: l’impossibilità di finanziare qui e adesso il federalismo, il dover rimandare perchè Tremonti non ha i soldi che servono, lo scoprire che almeno in prima battuta il federalismo costa, costa quel tanto che l’Italia non può permettersi perchè tutti gli Stati e i governo di Europa si sono impegnati a non spendere più. No federalismo, no Lega… Il rinvio sarebbe la rottura del patto di legislatura con Bossi. Sono tutte ipotesi estreme, più o meno improbabili. Ma “qualcosa” nell’aria c’è davvero.

C’è davvero un fastidio di Berlusconi nei confronti dei “troppi affaristi” accampati intorno al governo. Sarà strategia per defilarsi, sarà propaganda comunicativa, ma c’è. E c’è davvero Casini che si agita non per ridiventare ministro ma perchè “vede” che l’enorme maggioranza berlusconiana in Parlamento è prigioniera della sua stessa narrazione, quella di un paese dove più o meno tutto va bene o almeno nel migliore dei modi possibili di questi tempi. Come fa una maggioranza che si narra così a cominicare d’un tratto agli italiani che la spesa va tagliata, che i deficit della Sanità si pagano con le tasse, che le tasse non caleranno, che i contratti e gli stipendi pubblici vanno bloccati? E questo tanto per cominciare?

Casini pensa che prima o poi diventerà “obbligatorio” quel che nessuno vuole: un governo di emergenza nazionale, l’unico che possa affrontare il peso e l’impopolarità di ciò che “obbligatoriamente” va fatto. C’è l’agitazione di Di Pietro che chiede al centro sinistra di darsi un candidato premier in vista di elezioni anticipate e ravvicinate, c’è l’ansia del Pd che non se la sente di affrontare elezioni. “Qualcosa” c’è, qualcosa che viene descritto, interpretato, sussurato e raccontato con i “connotati” di un classico italiano: la crisi politica e di governo.

Non è un’illusione ottica, ma è solo un riflesso nello specchio. Qualcosa luccica e appare nello specchio deformato e deformante della politica e della vita pubblica italiane. Ma non è il “fuoco”, è solo, sul vetro di una finestra, una “lingua” della fiamma vera che brucia nel caminetto. Nello stesso giorno, nelle stesse ore l’economista Roubini presenta il suo libro: “La crisi non è finita” e le Borse tornano a dubitare di se stesse.

Negli stessi giorni, nelle stesse ore il governo Cameron appena insediato taglia gli stipendi di tutti i ministri e funzionari, anticipo del taglio di sei miliardi di sterline alla spesa pubblica inglese, anticipo a suo volta di un colossale rientro dal deficit britannico salito intorno al dieci per cento del Pil. E Zapatero taglia del cinque per cento gli stipendi pubblici in Spagna e il Portogallo fa altrettanto aggiungendo inasprimento fiscale dell’uno e mezzo per cento sui redditi e Sarkozy taglia del dieci per cento il bilancio di spesa e in Grecia non si paga la quattordicesima mensilità estiva e non si pagherà neanche la tredicesima invernale e la Germania si rimangia il taglio delle tasse promesso in campagna elettorale appena un anno fa. E tutto questo, tutto insieme, non è che l’inizio, l’inizio del vero e grande “Qualcosa” che agita anche l’Italia.

Eccolo il “qualcosa”: l’Europa tutta, sia pur divisa in Nord e Sud, da almeno trenta anni ha costruito e vive in un sistema sociale ed economico che appare a tutte le pubbliche opinioni come “diritto una volta per tutte, stabilito alla nascita”, condizione naturale di vita. E che contemporaneamente non può più essere finanziato e mantenuto in vita. Dilatazione ed inefficienza dell’apparato pubblico, spesa pubblica come integrazione al reddito di vasti settori della popolazione, spesa pubblica come occasione di arricchimento e deposito e garanzia del consenso elettorale, Stato sociale generoso quanto ingiusto verso le nuove generazioni, ampia e tollerata evasione fiscale, forte e incoraggiato indebitamento privato, cioè delle famiglie.

L’Europa del sud ha praticato, è abituata al debito pubblico (spesa pubblica e evasione fiscale), quella del Nord ha allevato e coccolato il debito dei privati. Di tutti questi debiti si sono fatti garanti i governi e gli Stati, ma ora si dubita della loro “garanzia”. Quindi il modello sociale, economico e di vita va cambiato e questo alla gente, a tutte le “genti” d’Europa non piacerà. E’ questo il fuoco, è questa la crisi, quella vera.

Prendere atto della crisi in Italia dovrebbe significare stop ai quaranta miliardi di sovracosto della Pubblica Amministrazione, stop agli 80 miliardi di spesa discrezionale in mano a Regioni, Comuni e Province, stop ai circa 150 miliardi di evasione fiscale, stop al federalismo il cui battesimo costa almeno 50 miliardi. Stop, almeno stop: non  recuperare o tagliare tutta la montagna dei 300 miliardi complessivi. Ma non accumulare altro, non alzare la vetta del monte, fermare. E recuperare almeno un venti per cento della montagna: 60 miliardi l’anno da recuperare dalle abitudini di vita della società italiana. Non c’è nessun partito, schieramento politico o leader che se la senta, neanche di tentare.

Sanno che potrebbero essere travolti e, soprattutto, non dispongono neanche della cultura di governo per simili scelte. Però qualcosa avvertono e capiscono e la reazione è quella istintiva: “buttarla in politica”. Nuove alleanze o nuove elezioni o nuova opposizione. La sinistra italiana, come le altre sinistre europee, è risucchiata volente o nolente nella difesa della spesa pubblica, dei dipendenti pubblici, del welfare immobile. Dopo essere stata per decenni il “partito delle tasse” si avvia ad essere “il partito del debito”, trascinata dalla sua stessa gente. La destra italiana, la destra berlusconiana, scivola verso la tentazione del nuovo plebiscito, del nuovo appello al popolo come se un voto di popolo potesse cancellare, abolire il debito. La particolarità italiana, la Lega, rischia di impazzire di fronte alla verifica fattuale che il federalismo costa troppo per farlo adesso e quindi rischia che il suo federalismo mancato o rimandato scada od evolva in nuovo secessionismo.

Ci sono dunque due crisi che si intrecciano, si pedinano, si marcano. L’una è quella vera, il fuoco che brucia. L’altra è il suo riflesso, la sua ombra. Il sistema politico e l’opinione pubblica italiani sembrano pronti a cercar di afferrare l’ombra con le mani mentre camminano ad occhi chiusi verso e dentro il fuoco.

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