ROMA – “Il troppo stroppia” suggerisce la saggezza popolare, ma non “stroppia” evidentemente per i top manager che di questa massima non tengono conto e arrivano a guadagnare 180 volte quello che guadagnano i dipendenti delle aziende da loro guidate. E questo nonostante le retribuzioni di membri di cda, ad, dg e presidenti sia in calo di un buon 10% rispetto all’anno passato.
A fare i conti in tasca alle aziende quotate con sede in Italia è l’Area studi Mediobanca che ha analizzato la campagna compensi dell’anno 2017 di 230 imprese con sede in Italia quotate all’Mta (Mercato telematico azionario), il listino principale della Borsa e, calcolatrice alla mano, si scopre che ai dipendenti di queste società possono servire fino a 183,4 anni di lavoro per guadagnare la stessa cifra dei loro “capi”.
Le realtà più munifiche sono le assicurazioni. Se la media totale, anche con cariche congiunte di direttore generale o presidente, è di 1,17 milioni, i dirigenti delle compagnie ne percepiscono 4,3 con un massimo di 7,9, mentre quelli delle banche 1,9 milioni con un tetto a 5,7 e quelli dell’industria superano di poco 1 milione e arrivano a 7,7.
Stipendi e trattamenti dorati che, tra l’altro, non tengono conto dei bonus – di solito a 5 o 6 zeri – per inizio o cessazione di carica. Ma stipendi che sono in calo rispetto allo scorso anno. Per gli amministratori delegati, ad esempio, lo stipendio medio è stato di 849.300 euro lordi nel 2018. Un valore inferiore del 10,8% a quello del 2017 (952.400 euro), anno in cui invece c’era stato un aumento del 14,5% rispetto al 2016 (831.700 euro).
Se come diceva Totò “è la somma a fare il totale”, non c’è comunque da piangere per questa contrazione di redditi che, comunque, garantiscono un discreto benessere. C’è da piangere invece per i dipendenti delle stesse aziende che in una vita lavorativa intera non guadagneranno quanto il loro ad in un anno. Una forbice, quella tra le retribuzioni dei dirigenti e quelle più basse, che arriva a sfiorare i due secoli. Evidentemente troppo. Troppo anche senza volerne valutare le implicazioni etiche, ma troppo per il mercato perché è chiaro che, con questo delta, un’azienda non si può considerare ben amministrata. A meno che il dipendente non valga e non venga valutato alla stregua non di un individuo ma di una macchina, di una bestia da soma moderna.
Altra nota dolente che esce dallo studio è il ruolo femminile. Nei ruoli apicali figurano infatti poche, pochissime donne e sono pagate meno dei colleghi maschi. Se nei board gli uomini occupano il 66% delle posizioni e le donne il 34%, la quota femminile scende sino all’8,1% nella carica di amministratore delegato e al 10,7% in quella di presidente. Mentre la remunerazione media del ceo donna supera di poco la metà di quella del parigrado maschio.