Pensioni: i pilastri che non reggono

di Paolo Forcellini
Pubblicato il 7 Giugno 2011 - 15:53 OLTRE 6 MESI FA

Ma l’aspetto senz’altro più preoccupante non riguarda l’età di uscita dal lavoro quanto il già citato “tasso di sostituzione”. Questo è stato fin qui prossimo all’80 per cento: d’ora in poi scenderà fino ad arrivare, secondo le diverse stime, fra il 40 e il 60 per cento. Insomma chi andrà in pensione sull’onda di una retribuzione che nella media della vita attiva si è attestata attorno ai 1.200 euro si ritroverà un assegno mensile fra i 480 e i 720 euro. Se poi avrà avuto periodi di disoccupazione il risultato sarà ancora più modesto. Il “fortunato” che nel corso della sua carriera fosse partito da una retribuzione mensile di 800 euro per arrivare dopo un quarantennio ai 3.000 si potrebbe ritrovare con un assegno di mille euro o poco più, pari al 30-40 per cento del suo ultimo stipendio: inevitabile un rapido e drastico cambio delle abitudini di vita e di consumo.

Messi di fronte a stime di questo genere, in molti di questi tempi sembrano aver riscoperto l’acqua calda, inclusi parecchi di coloro che negli anni scorsi avevano sottoscritto le riforme. Si sono cioè svegliati al mattino con un’illuminazione: le future pensioni spesso saranno del tutto inadeguate a garantire un decente livello di sopravvivenza e comporteranno “costi sociali” insopportabili. In realtà era chiaro fin dall’inizio che la previdenza generale, cioè il succitato primo pilastro, avrebbe portato a risultati del genere.

Gli illuminati sulla via di Damasco ora cominciano a invocare rimedi, spesso peggiori dei mali. In sostanza si propone di tornare indietro, di mettere la sordina al calcolo contributivo, ad esempio fissando dei minimi pensionistici abbastanza alti. E’ di fatto quanto sostiene, ad esempio, la leader della Cgil Susanna Camusso quando dice che si dovrebbe tornare a “garantire ai futuri pensionati almeno il 60 per cento dell’ultima retribuzione”.

Secondo pilastro. L’obiettivo di un tasso di sostituzione del 60, ma anche del 70 o dell’80 per cento, non è affatto peregrino. Solo che non può essere perseguito imponendolo attraverso un minimo di legge, col rischio di far saltare un equilibrio del sistema previdenziale che è stato piuttosto arduo raggiungere e che oggi costituisce uno dei pochissimi punti di forza di un Paese con un debito che supera di un bel po’ il Pil.

I più avveduti tra i legislatori, gli economisti e i sindacalisti che hanno lavorato alla costruzione del nuovo sistema erano ben consci che avrebbe distribuito pensioni modeste anche se forse avevano sottovalutato l’impatto negativo della crisi e della variabile demografica. Proprio per questo avevano insistito sulla necessità che l’implementazione del nuovo meccanismo generale e pubblico di previdenza si accompagnasse allo sviluppo del secondo pilastro previdenziale, quello cioè costituito dai fondi pensione (che possono essere “chiusi”, cioè di categoria, oppure “aperti”, cioè gestiti da banche o assicurazioni).