Diocleziano salvò Roma. Caltagirone, lezione di storia: cristiani antistato

 Mario Ajello  La stabilità. La politica senza grilli per la testa. Il mix tra forza militare e capacità diplomatiche, che portò a una pace favorevole e lunga. Il non attaccamento alla poltrona, che lo spinse - primo e unico esempio tra gli imperatori romani a fare questa scelta volontariamente - a ritirarsi dalla carica, il primo maggio del 305, rifiutando gli inviti a riprendere il potere nel caos politico che seguì alla sua abdicazione. Tutto questo, e molto altro, ha rappresentato Diocleziano. Tanto che Edward Gibbon lo paragonò, per grandezza, all’imperatore Augusto. E «al pari di Augusto - scrisse il sommo storico inglese - Diocleziano può essere considerato come il fondatore di un nuovo impero». Di fatto, proprio nel bimillenario della morte di Augusto, la figura di Diocleziano torna al centro dell’interesse degli studiosi ed è oggetto di convegni, saggi, analisi robuste e approfondite come quella condotta da Umberto Roberto, docente di storia romana all’Università europea della Capitale, pubblicata dall’editrice Salerno (“Diocleziano”, 387 pagine, 24 euro). E a riprova dell’importanza di quella fase della storia romana e del suo protagonista, si terrà in Campidoglio domani - alla presenza del sindaco Ignazio Marino - la presentazione del tomo firmato da Umberto Roberto e interverranno insieme all’autore l’imprenditore Francesco Gaetano Caltagirone e lo storico Alessandro Barbero. Moderatore del dibattito, PaoloMieli. L’IMMAGINE C’è chi, nella nuova pubblicistica su Diocleziano, lo definisce «l’autocrate riformatore». Chi invece lo chiama «l’imperatore guerriero». Mentre tende a diventare più problematica quell’immagine da ricordi ginnasiali che legava Diocleziano soprattutto alla persecuzione anti-cristiana. Che naturalmente ci fu, è ben raccontata sulla scorta di ampia documentazione nel libro di Roberto ma già il grande antichista Sante Mazzarino consigliava di metterla in una luce più profonda. Secondo lui, «il genio di Diocleziano aveva intuito l’inutilità di quella lotta» contro il cristianesimo «ma gli uomini di cultura intorno all’imperatore pensavano che ancora si potesse e si dovesse tentare» una repressione dura. Durata ben oltre l’abdicazione di Diocleziano del 305 e protrattasi per altri sette anni. Lo stesso Gibbon aveva dato a quella lotta un significato tutto politico. Il proselitismo cristiano - a parere dello storico - aveva raggiunto la gran parte delle province dell’impero ed era penetrato in profondità nell’esercito, cioè nell’unica e fondamentale base del potere imperiale, e avrebbe scatenato il rischio di segare il pilastro della sovranità di Diocleziano. L’EDITTO L’editto sui prezzi per non farli crescere troppo; la separazione tra amministrazione civile e quella militare, rafforzandole entrambe; la condivisione del potere con i Tetrarchi (ma governò sempre lui); le guerre e le paci; le grandi opere a cominciare dalle Terme di Diocleziano, grandi il doppio di quelle di Caracalla; i conflitti contro i Germani e i Sarmati e contro il grande nemico, i Persiani; e via così. La densità della vita, della politica, dello sguardo globale (il limes danubiano, il limes africano, il limes renano, il fatto che visse non a Roma ma a Sirmio in Serbia, ad Antiochia in Siria e in Turchia nell’attuale Izmir) di questo imperatore figlio di uno schiavo di un senatore romano, poi diventato liberto, si riflette dettagliatamente nella ricchezza dello studio appena pubblicato dall’editrice Salerno. Una questione centrale, per capire il significato del governo di Diocleziano, è quella dei poteri del Senato. Uno storico insigne come Luciano Canfora la riassume così: «La scelta di non chiedere nemmeno l’avallo, o la legittimazione, del Senato era un modo drastico, ma efficace, di far comprendere all’aristocrazia senatoriale il cambio d’epoca in atto. Ormai era l’esercito, in tutta la sua amplissima estensione e articolazione, il fondamento politico-sociale del potere imperiale». I militari erano dunque il ceto sul cui peso sempre maggiore e sulla cui lealtà si fondava lo Stato. Le basi del potere, le fonti di legittimità, le tecniche di consenso di Diocleziano costituiscono del resto anche uno dei nuclei forti della monografia scritta da Roberto. IL SISTEMA Fu dunque più guerriero o riformatore Diocleziano? Fu una figura complessa e sfaccettata, che aveva capito che il cuore della politica era, ed è, la buona amministrazione. Anche quella fiscale. Fu lui ad avviare una razionalizzazione profonda del sistema della raccolta delle tasse. La quantità delle quali veniva attentamente calcolata ogni anno sulla base delle necessità (venne istituito per la prima volta il bilancio annuale) e sulla base delle risorse esistenti. Fece questo e tutto ciò che doveva fare e poi, dopo vent’anni di governo, Diocleziano se ne andò a Spalato. Nel palazzo che si era fatto appositamente costruire, poco distante dalla sua città natale, Salona. E così dimostrò di avere una virtù, che si sarebbe rivelata sconosciuta alla gran parte dei suoi futuri colleghi politici: quella di servire lo Stato, di conoscere i limiti (progettuali e temporali) della propria azione e poi di ritirarsi, lasciando ai posteri come noi il piacere di interrogarci sulla sua storia.
Diocleziano: fu un grande imperatore. Perseguitò i cristiani per salvare Roma

ROMA – Diocleziano, imperatore romano dal 284 al 305 d.C. e la sua persecuzione dei cristiani esaltati e difesi da uno dei più capaci, e di grande successo, imprenditori italiani, Francesco Gaetano Caltagirone è quasi una novità assoluta nella storia d’Italia e non solo. È avvenuto in una bellissima ma male illuminata sala dei Musei del Campidoglio a Roma, in occasione della presentazione di un libro dello storico  Umberto Roberto, “Diocleziano” (editore Salerno, 387 pagine, 24 euro) dedicato all’imperatore romano che salvò l’impero dalla disgregazione, inventò le corporazioni e pose le basi per la lenta inesorabile morte di Roma, impero d’Occidente, sotto il peso della pressione fiscale.

A un tavolo di intellettuali di professione, l’autore del libro Umberto Roberto, l’ex direttore del Corriere della Sera Paolo Mieli e lo storico Alessandro Barbero, Francesco Gaetano Caltagirone, che da quasi niente ha costruito una potenza economica e finanziaria da qualche miliardo di euro, editore del Messaggero di Roma e Mattino di Napoli, stava umilmente all’estrema sinistra per il pubblico e quando ha parlato, senza leggere nulla, lo ha fatto con umiltà, come se fosse in salotto con un gruppo di suoi pari e una competenza che rivelava una puntigliosa preparazione e anche una passione sul tema del rapporto fra Stato e organizzazioni religiose che finora gli era riconosciuta per argomenti meno alati come le relazioni industriali e i bilanci.

L’evento è in un certo senso straordinario. È un po’ come se Arthur Ochs Sulzberger partecipasse a un dibattito sulle politiche fiscali sostenute da James Madison o Lord Rothermere sul Gunpowder plot.

Secondo Paolo Mieli,  che presiedeva il panel di presentatori, il libro è bello e merita di essere comprato. Exploit di Caltagirone a parte, la presentazione ha avuto un bel ritmo e non è stata certo noiosa, ma carente nei riferimenti alla politica fiscale, salvifica nell’immediato e disastrosa nei secoli e anche nel riferimento alla vicenda personale di Diocleziano, che si può quasi assumere a paradigma della assoluta casualità del nostro destino.

Questa la vicenda che portò Diocleziano sul trono imperiale. A conclusione di un periodo di lotte complotti e battaglie si arriva alla battaglia finale, sulle rive della Morava, tra Serbia e Slovacchia, combattuta da Carino, legittimo erede e Diocleziano, pretendente di umili origini, oggi si direbbe di etnia croata.

Carino stava vincendo la battaglia, per Diocleziano si prospettava la fine, quando qualcuno si avvicinò a Carino e lo uccise. Era uno dei suoi. Si disse che era uno dei suoi ufficiali, cui Carino aveva sedotto la moglie e aveva colto la confusione della lotta corpo a corpo per vendicare le corna. (Stephen Williams, Diocletian and the Roma recovery;  Scriptores Historiae Augustae, Vita Cari, XVI).

Quel che successe dopo fu anche esemplare, segno che il Destino, magari tardi, ma sa scegliere bene, perché Diocleziano fu un grande imperatore anche se nella tradizione cristiana fu un brutale assassino perché mandò in cielo schiere di martiri.

Lo fece, questa la tesi sostenuta dai presentatori e da Francesco Gaetano Caltagirone con passione e foga,

“non permotivi ideologici o per fanatismo o addirittura per tendenza al grand guignol ma per salvare la romanità, cioè la civiltà”,

ha sintetizzato sul Messaggero Mario Ajello:

“Mentre Costantino è stato l’imperatoreche l’ha svenduta, Diocleziano l’ha difesa con tutto il suo impegno, individuando nei cristiani un fattore di disgregazione per l’autorità costituita”.

Ha detto Franco Caltagirone:

“Egli non ha niente contro la religione cristiana, anzi alcuni alti dignitari della sua corte professavano quel credo. Diocleziano capisce però che i cristiani stavano diventando uno Stato nello Stato,e che il nuovo potere che si stava stratificando non era romano e poteva portare alla rovina di tutto”.

Diocleziano agisce insomma per necessità, e con lungimiranza. Caltagirone:

“Comprende che non è Roma che può cadere,ma è la civiltà che può cadere. In questo sta la grandezza del personaggio”.

Ajello:

“E anche l’ingiusta maledizione e la vera epropriacancellazionedallamemoriaallequali la tradizione cristiana lo ha sottoposto. Fino a renderlo una figura storica così misconosciuta, che neanche si sanno con precisione i suoi dati biografici, quando nacque, quando morì”.

La storia, si sa, la scrivono i vincitori e, anche questo si sa, sono stati i preti a vincere, nonostante gli eroici tentativi di un altro grande personaggio condannato nella memoria in eterno dalla Chiesa, Giuliano l’Apostata.

Paolo Mieli ha aggiunto:

“Diocleziano è un maledetto. Per essere stato l’ultimo grande persecutore dei cristiani.Ma è una persecuzione controversa. E Diocleziano si distingue per altre caratteristichechene fanno uno dei due o tre più importanti imperatori di Roma”.

Insieme con Augusto, il fondatore dell’impero, e con Traiano, colui che ha portato l’impero alla sua massima espansione, chiosa Mario Ajello.

“È stato un colosso della storia troppo presto dimenticato”.

Lo storico Alessandro Barbero, citato da Mario Ajello, aggiunge: questo è avvenuto

“nonostante la politica di Diocleziano si sia distinta per innovazione istituzionale. Diocleziano inventa la tetrarchia perchè l’impero romano aveva un vizio di fondo: l’assenza di regole per nominare l’imperator”.

Umberto Roberto:

“Diocleziano puntò sulla collegialità e sulla selezione attenta della classe dirigente e dei migliori ed ebbe una visione del potere basata sulla temporalità, cioè il potere come servizio e quando il servizio è compiuto ci si può ritirare”.

Ajello:

“La sua lotta strenua per salvare l’impero non ha avuto buon esito – anche perchè dopo Diocleziano non c’è mai più stato un Diocleziano – e la fine di quel sistema stuzzica un paragone neanche troppo acrobatico sia a Caltagirone sia a Barbero: quello con la fine dell’Urss”.

Caltagirone propone un parallelo con Silla, il quale a sua volta fece il nobile gesto delle dimissioni dalla sua alta carica di comando:

«Andò in Senato e disse: quello che dovevo fare l’ho fatto e non serve più che io sia dittatore a vita. Quando poi scese dal Campidoglio, venne insultato e contestato ma non reagì e rispose soltanto: io non ho più potere”.

Si è citato anche Napoleone, sorvolando sul fatto che a farlo ritirare non fu la sua scelta ma il duca di Wellington. Nessuno ricorda Benedetto XVI, non è aria.

Ajello:

“Ma ora, finalmente, la riabilitazione sembra cominciata. Anche per contrasto”.

Caltagirone:

“Costantino non era un santo. Non era affatto così pio, come s’è sempre detto. Ha messo la moglie in un pentolone e l’ha fatta bollire. Ma soprattutto smonta, per sete di potere, tutta l’opera di Diocleziano. Il 313, la data dell’editto di Costantino [anche sembra accertato che non fu lui l’autore, ma il suo collega Licinio]  in favore dei cristiani, segna il tradimento dell’impero e la fine della romanità. Il Medioevo comincia proprio in quel momento. E non ci sarebbe stato, se Diocleziano avesse trovato dei successori alla propri altezza”.

Nessun dubbio sembra emergere sull’influenza che ebbero sul declino dell’impero romano grandi derivate macro economiche e geopolitiche come recessione, durata fino al mille, dovuta alla pressione fiscale che disincentivava il lavoro;  concorrenza della periferia contro i prodotti italiani (olio ad esempio) e poi, qualche secolo dopo, lo sfracello del Califfato (anche allora, sì) che scardinò il grande mercato comune che aveva come collante il Mediterraneo.

Volendo riscattare Diocleziano dall’oblio cui lo condannò la Chiesa, i convenuti hanno rinforzato il mito che a fare cadere Roma fu la Chiesa, cosa tanto non vera che la metà di impero rimasta a oriente sotto Costantinopoli continuò a prosperare per secoli e si spense definitivamente mille diconsi mille anni più tardi.

 

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