Mirella Serri intervista Chiara Frugoni: “È Gian Burrasca il mio Santo ribelle”

Chiara Frugoni
Chiara Frugoni

ROMA – Chiara Frugoni, saggista e scrittrice, medievalista, nata a Pisa nel 1940, vissuta tra Roma e la sua città natale, “massima conoscitrice del santo di Assisi e di santa Chiara” sta per pubblicare due nuovi volumi:  San Francesco e il lupo Persino le stelle si devono separare (“deliziosa e ironica autobiografia”).

Questa l’intervista di Mirella Serri a Chiara Frugoni per Il Corriere della Sera:

Che sperimenterà anche a scuola?«Le suore canossiane di cui frequentavo l’istituto tenevano in un ripostiglio un copricapo con due orecchie d’asino. La più brava doveva girare per le classi tenendo per mano il ciuccio».

Inutile dire che la prima della classe era lei, Chiara. «In famiglia non era nemmeno pensabile che io non fossi in vetta. Toccava a me il rito della vergogna, esporre al pubblico ludibrio il somaro con il cappello a cono».

Altre letture strappacuore? «Alla lettera, Cuore , di Edmondo de Amicis. Non mi piaceva per nulla, poiché trattava con disprezzo le classi sociali inferiori. Scoperta della mia vita infantile è Gian Burrasca , il simbolo della rivolta dei bambini creato da Vamba (pseudonimo di Luigi Bertelli). Mi affascina anche se io sono stata sempre una ribelle perdente. Con le mie battaglie non me ne andava bene una».

I primi percorsi letterari da adulta? «Dostoevskij, Kafka, Tolstoj, Stendhal, Shakespeare e la Woolf, tutti letti dalla a alla z della loro produzione, ovvero l’opera omnia, si usava così, un autore si consumava interamente. Con Orgoglio e pregiudizio e conMansfield Park di Jane Austen ho fatto una scoperta eccezionale, mi è sembrato di rivivere scene di vita familiare. Il grande Meaulnes di Alain-Fournier è stato il romanzo dell’amicizia e dell’adolescenza: il suo autore trova la morte nella Grande Guerra appena ventisettenne. La vita davanti a sé di Romain Gary mi ha rivelato lo stile dell’emigrazione e il “sapore” della Francia multietnica. La pioggia prima che cada di Jonathan Coe, letto in anni più vicini, è invece esemplare di come una narrazione sia un’avventura tra segreti e misteri».

I Santi, a cui lei dedicherà la sua ricerca, quando fanno irruzio­ ne nella sua vita? «Sono un’autodidatta, devo molto all’insegnamento di mio padre alla cui autorità da piccola non mi piegavo volentieri. Mi ricordo che, una volta, chiusa per punizione nello sgabuzzino delle provviste, ho distrutto tutti i vasi di carciofini, piselli e farina che c’erano dentro. Papà mi tira fuori e me le dà di santa ragione. Però il rapporto con lui ha funzionato, facevamo lunghe escursioni nei musei e a pranzo portava la conversazione sul terreno dell’etica e della politica, con nomi ricorrenti, come quello di Benedetto Croce. Mi ha trasmesso un metodo di analisi e di ricerca. All’università faccio un corso su San Francesco e scopro il valore rivoluzionario della sua predicazione, capace di affermare che chi fa la carità non compie una particolare opera di bene ma semplicemente restituisce quello che deve ai poveri. Anche Santa Chiara era molto innovativa, una monaca che non voleva essere mantenuta da altri ma voleva curare i malati, sollevare i lebbrosi dalle loro pene».

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