Vendite giornali crisi globale, Facebook nemico n.1

di Sergio Carli
Pubblicato il 4 Febbraio 2020 - 16:42 OLTRE 6 MESI FA
Vendite giornali crisi globale, Facebook nemico n.1

Vendite giornali crisi globale, Facebook nemico n.1

ROMA – Giornali in crisi nel mondo occidentale , le ultime notizie sono sempre più deprimenti. Calano le vendite, solo in parte compensate dagli abbonamenti alle edizioni on line; cala la pubblicità sul giornale di carta, cala anche la pubblicità on line, divorata da Google e soprattutto da Facebook.

Ben diversamente vanno le cose nei Paesi emergenti, India e Cina in testa, dove la crescita delle diffusioni cavalca il calo dell’analfabetismo e la carta stampata non teme, almeno per ora, la concorrenza di internet.

Ma nel mondo al di qua della ideale Raya della ricchezza globale, c’è da piangere. Un quadro preoccupante del mercato americano è stato tracciato da Forbes a fine 2019.

La crisi, rivela Forbes, non risparmia nemmeno i grandi giornali in lingua inglese, una minoranza dei quali se la cava, grazie a un mercato mondiale di alcuni miliardi di potenziali lettori.

Per tutti gli altri, quale che sia la lingua, le prospettive sono cupe. Più cupe ancora sono dove l’assorbimento di pubblicità da parte della tv è stato storicamente maggiore, prima ancora di internet.

Così è nel caso italiano, Paese dove si registra la più grande offerta di spot in tv di tutto il mondo.

La situazione è peraltro irreversibile, dato l’intreccio di interessi fra partiti politici e operatori principali (Rai, Mediaset, Sky) senza possibilità di recupero (la più volte ventilata privatizzazione della Rai sarebbe la pietra tombale dei giornali).

La crisi della pubblicità sulla carta stampata si esprime in queste cifre, che riportano il confronto con la pubblicità outdoor, cartellonistica e arredo urbano. La outdoor ha superato in quota di mercato la carta stampata, col 6,5% dei 600 miliardi globali. In tutto sono previsti per il 2020 ben 40,6 miliardi, 4 in più dei giornali. La crescita nei prossimi anni sarà fra il 2,5 e il 4 per cento annuo.

La cupezza delle stime trova riscontro nei consuntivi.

Nell’ultimo trimestre dell’anno, la News Corp di Rupert Murdoch (un gigante da 10 miliardi di fatturato), ha registrato una inattesa perdita consolidata. I risultati positivi di Dow Jones (che Murdoch comprò a caro prezzo qualche anno fa) editore del Wall Street Journal, non sono stati capaci di compensare le perdite nelle altre divisioni del Gruppo.

La perdita, per il solo quarto trimestre, è stata di 211 milioni di dollari, su un fatturato di 2,34 miliardi.

Quel che più lascia perplessi è l’auspicato miglioramento dei ricavi grazie all’inclusione dei contenuti dei giornali di Murdoch in una nuova piattaforma di Facebook. Si tratta di un segnale di resa e di una nuova dipendenza dei giornali dai social network.

In effetti è un messaggio di morte. Mentre Google, pur con tutte le sue stranezze e macumbe, comunque è condizione di vita per i siti, Facebook è contemporaneamente alternativa ai giornali sui contenuti e terra bruciata per la pubblicità.

Gli editori più grandi si illudono con qualche accordo privilegiato e non si rendono conto del destino che li aspetta come semplici content provider.

Vendite giornali, il mercato della pubblicità.

Il mercato della pubblicità è sempre più frammentato fra la televisione, che si accaparra, in America come in Italia, i grandi budget, e i milioni di siti internet che hanno occupato lo spazio delle directories (elenchi telefonici), dei piccoli annunci dei giornali  e poi hanno offerto ai piccoli e medi inserzionisti  infine anche ai grandi, in sequenza, nuove alternative, meno costose anche se non si sa quanto efficaci, rispetto al monopolio dei quotidiani.

In questa evoluzione della catena alimentare pubblicitaria, negli ultimi anni si è inserita di prepotenza Facebook, favorendo alcune testate top nei singoli mercati ma anche cercandoti di prosciugare risorse dai piccoli operatori.

La lotta per la sopravvivenza dei giornali si è così spostata dalla pubblicità ai ricavi da vendita delle singole copie, ieri cartacee oggi soprattutto virtuali.

Per i giornali italiani, mai viziati da eccesso di ricavi pubblicitari, si è trattato di un sensibile aumento, per quelli americani, abituati a privilegiare la diffusione rispetto al prezzo (con un rapporto di uno a 3 rispetto agli italiani),  stata una rivoluzione culturale.

Sul prezzo di vendita della singola copia in edicola si è scaricato il tentativo di compensare il calo dei ricavi da pubblicità. I risultati sono sotto gli occhi di chi segue questa nicchia di mondo.

Gli editori italiani hanno preferito conservare decine di pagine inutili spingendo il prezzo oltre il muro dell’euro. In America e in Gran Bretagna sono, in genere, ancora un bel po’ sotto.

Vendite giornali crisi globale, Facebook nemico n.1.

A vantaggio degli americani e degli inglesi bisogna sempre ricordare che gioca, come dodicesimo in campo, la lingua inglese, che gode di una diffusione mondiale.

Questo permette a testate come New York Times, Wall Street Journal, Washington Post, Financial Times e Economist, di raggiungere cifre di abbonati dell’ordine del milione e più, grazie anche a prezzi di pochi euro o dollari o sterline al mese.

Sul piano economico, non sempre i risultati sono entusiasmanti. Se l’Economist, combinando la struttura di costi di un settimanale con l’apporto di attività collaterali di rilievo, presenta utili significativi, il Financial Times non scintilla con una redditività operativa poco sopra il 6 per cento; al punto che i vecchi proprietari, gli inglesi di Pearsons, lo hanno venduto ai giapponesi di Nikkei.

Significativa la svolta strategica di Pearsons: venduto l’Economist, venduto il FT, si sono concentrati su libri e education.

Per la storia, Pearsons fu anticipato in questa evoluzione dagli eredi di Lord Thomson una generazione fa.

I Thomson vendettero i loro giornali, inclusi Times e Sunday Times di Londra, svilupparono il settore della informazione economica fino al grande colpo della fusione con Reuters, impensabile ancora pochi anni prima.

I Thomson hanno tenuto un giornale a Toronto, non senza tagliare pagine e edizioni locali. Viene da pensare che, essendo Thomson-Reuters basata in Canada, si tratti più di una scelta a tutela del territorio che di fede industriale.

Alle notizie negative di News Corp. si sono affiancate quelle dal New York Times, il cui CEO Mark Thompson (nessun parentela) ha messo in guardia contro una “turbolenza” nel mercato della pubblicità digitale.

La crisi non è solo sulla carta stampata, si è estesa alla informazione on line. Facebook sta divorando tutto. A conferma, una grande catena di giornali locali, McClatchy, delle cui testate fanno parte pesi massimi come Charlotte Observer, Kansas City Star, and Miami Herald, ha registrato un calo fino a un quinto nei ricavi da pubblicità digitale.

La prova del nove è stata data da Warren Buffet, per una vita azionista e proprietario di giornali. Ha venduto, proprio nel gennaio 2020, tutti i suoi 30 quotidiani alla catena Lee, che si dedicherà all’esercizio preferito: taglio dei costi.

Altro evento impensabile pochi anni fa è stata la fusione di Gannett (editore di Usa Today e decine di testate locali in tutta l’America) in Gatehouse.

Ne è nato un colosso che oltre a Usa Today comprende 261 quotidiani locali e che con 140 milioni di utenti unici al mese afferma di servire metà dell’audience digitale americana.

Ma il primo obiettivo sembra essere un bel taglio di costi da 300 milioni di dollari, il 10% del fatturato della vecchia Gannett.

In Gran Bretagna la situazione non appare molto brillante. Anche se il Guardian promette il pareggio, dopo avere perso in pochi anni un centinaio di milioni più per errori manageriali e dopo un triennio di tagli dei costi, il Telegraph, sopravvissuto alla crisi grazie a una audience di anziani più legati alla carta che al tablet, sembra entrato in crisi a sua volta.

Gli ultimi utili registrati sono stati meno di un milione su un fatturato di 270 milioni. Gli attuali proprietari, i gemelli Barclay, che pagarono 665 milioni nel 2004, lo hanno messo in vendita.

Prospera già da anni il settimanale Economist. Il suo stile cerchiobottista non offende nessuno, raramente le sue previsioni di sono rivelate esatte, ma ci sono solo 52 settimane in un anno e fa tanto chic.

Nella sola Inghilterra non ha mai venduto molto più di 100 mila copie. Poi una amministratrice texana fu brava a sviluppare l’edizione americana e poi anche a promuovere gli abbonamenti on line in tutto il mondo.

Poche foto, relativamente pochi giornalisti: gli utili sono di tutto rispetto.

Si salva e promette di prosperare anche il gruppo del Daily Mail. Sono gente in gamba da sempre e i risultati si vedono. In questi anni sono rimasti focalizzati, hanno diversificato in modo coerente (e ora comunque fanno pulizia), non hanno inseguito farfalle. L’ultimo bilancio porta un utile operativo oltre il 10% del fatturato, meglio del Corriere della Sera.

Rispetto al Corriere, hanno in più un sito che è fra i primi al mondo (anche i tedeschi attingono notizie dal Mail on line), in costante crescita di ricavi, con un suo corpo redazionale autonomo che finanzia l’edizione cartacea. Hanno centinaia di giornalisti, molti in America.

Rispetto al Corriere e a Repubblica e a tutti noi godono di un vantaggio incolmabile. Sono scritti in inglese, lingua nota dalle élite di tutto il mondo è anche dalle cassiere dei supermercati.

E questo valga di monito per chi sogna a occhi aperti.