Genova, gli incubi di Doria tra alluvioni e cemento

di Franco Manzitti
Pubblicato il 7 Settembre 2012 - 11:00 OLTRE 6 MESI FA
Marco Doria

GENOVA – Guardare il cielo carico di pioggia, gonfio di nuvole imprevedibili e perdere le notti nel terrore delle alluvioni. Ogni autunno una alluvione, ogni autunno un disastro. E l’ultimo novembre, giorno del Signore 2 novembre 2011, per l’esattezza, la sciagura, cinque morti, i bambini portati via mentre uscivano da scuola da quell’acqua marrone che precipita come su un toboga dalle colline cementificate di Genova-Alta.

Marco Doria, 55 anni, il marchese-sindaco di Genova dal maggio scorso, eletto dal centro sinistra, indipendente ma vicino a Sinistra e Libertà, passa un finale d’estate tra due incubi. Il primo è quello là dell’alluvione sistematica, quasi inesorabile tra la fine di settembre e il novembre inoltrato, oramai, con le mutazioni del clima, quasi letale e imparabile, perchè tra l’una e l’altra Genova non fa e non riesce a fare nulla per parare i colpi. Non ci sono canali scolmatori che potrebbero scaricare i fiumi, i rii, i corsi d’acqua, pronti a trasformarsi da secchi rigagnoli a ringhiose cascate gonfie di detriti. Non ci sono opere di deviazioni, contenimento e, sopratutto, continua a inquietare, dopo la tragedia del 2011, la condizione dei greti e degli alvei. Il fiume principale, che scende dalla Val Bisagno fino alla Foce, nel cuore cittadino, è dentro alle sue anse più larghe, verso le colline, una foresta amazzonica di alberi, cespugli, depositi di spazzatura. Il rio Chiaravagna, che nell’ottobre 2010 mise in ginocchio la popolosa delegazione-Municipio di Sestri Ponente, ha ancora nel bel mezzo del suo alveo un palazzo intero, abitato dal primo all’ultimo piano, il famoso palazzo di via Giotto, che è stato deciso di abbattere subito, ma che la burocrazia e le incertezze politiche tengono ancora lontano dalle ruspe con un cownt down sui mesi alluvionali che lascia tutti con il fiato sospeso e non fa, giustamente, dormire il sindaco-marchese.

E, se piove a bomba a Sestri e se il Chiaravagna si gonfia e se la sua diga, fermando la cascata e deviandola per le strade della delegazione, distrugge ancora i negozi e le piccole aziende? “Ma lo sapete che in tutta la Liguria, terra avara di spazi, stretta tra le montagne e il mare ci sono ben 2500 corsi d’acqua, fiumi, torrenti, rivi, singoli rigagnoli che precipitano dall’alto verso il mare e chi li controlla, chi cura il terreno perchè non diventino i killer delle alluvioni?”_ tuona non un personaggio qualsiasi, ma Gino Paoli, il grande cantautore genovese, che si è preso a cuore il destino idrogeologico della sua terra e fa concerti per raccogliere fondi che mettano al riparo dalle sciagure di questi tipo, finanziando con il ricavato i ragazzi che vanno a “curare” i terreni a monte, incolti, abbandonati, dove l’acqua dal cielo scorre senza contenimenti e piste e precipita a valle, giù per le piste di cemento che l’uomo ha costruito, senza pensare, senza calcolare le conseguenze….

”Se piove un minuto su un terreno verde, l’acqua ci metterà un’ora ad arrivare sul rio che scende a valle, se piove su un terreno asfaltato, strade, piazzali, cemento, quell’acqua ci metterà un minuto….” _ rinforza la sua tesi Paoli, che si è consultato con i migliori consulenti idrogeologici, un Sinedrio di esperti inascoltati, che da anni predicano in quel deserto, appunto di cemento, di abbandono, di incoltura. Un toboga, ecco quello che sono le colline cementificate di Genova, dal Ponente dell’edilizia popolare più o meno selvaggia con i quartieri sperimentali costruiti a quota 200-300 sul mare, dal centro sul quale piovono i rii che troveranno la barriera insormontabile del porto, quello storico, che devia gli scarichi a mare nel dedalo dei sotto carruggi, pronti a esplodere come tappi di champagne, a allagare cantinati, ma anche caveau di banche come quella volta , anni Ottanta, che nel sottofondo di una banca fece la fine del topo una anziana pensionata, scesa a ritirare le sue collanine e fu sorpresa dal boom del rio Sant’Anna.

In quanti modi si può, dunque, morire d’acqua a Genova nel tempo dell’alluvione che arriva ogni autunno? Nel caveau della banca, trascinati dal rio esondato perchè l’onda di piena arriva in dieci minuti e inghiotte i bambini che stanno uscendo da scuola, come è accaduto nel 2011, in mezzo a un greto secco diventato il Rio delle Amazzoni, come accadde a quella nonna e a quella nipotina, annegate nel rio Sturla, Levante della città negli anni Novanta……

Per questo il marchese- principe, Marco Doria, guarda il cielo e vive il suo incubo in mezzo agli altri incubi di una stagione difficilissima. I profeti di sventura non mancano, come quelli che governavano prima, il superesperto della sua predecessora, Marta Vincenzi, annegata politicamente nell’alluvione di undici mesi fa, fulminata alle Primarie proprio dalla catastrofe del 5 novembre, Paolo Tizzoni dirigente che ammette: “Abbiamo alle spalle oltre un secolo di errori e ritardi, ora è un calvario”.

Un secolo fa non si accorsero che la portata del fiume Bisagno, quello che divide la città tra il Centro e il Levante, non poteva essere coperto come fu fatto senza calcolare esattamente la sua portata. La calcolarono la metà di quello che statisticamente poteva essere in caso di piena ventennale (oggi col clima cambiato le piene sono altro che ventennali) e misero _ come si dice a Genova_ in braghe di tela tutta la città, in caso di pioggia torrenziale continua. Molti fiumi, torrenti, rii, sfociano in questo fiume secco e che se lo guardi oggi sembra una squallida pietraia che va a finire sotto la copertura della Foce, ma se lo guardi quando piove forte da qualche ora è un’onda marrone gonfia di arbusti, spazzatura, rami, perfino carcasse di automobili, incapace di assorbire gli affluenti, che tornano indietro e esplodono nei loro alvei schiacciati sotto montagne di cemento, strade, cantine di palazzi, “tombati”, come si dice nell’era della cementificazione selvaggia, dell’edilizia scatenata anni Cinquanta e Sessanta, quando _ dicono gli amministratori di allora, superstiti al tempo trascorso e testimoni di tanti disastri_ “Bisognava dare una casa a tutti, dopo la guerra, le distruzioni”.

E allora costruite, costruite, alzate palazzi, casermoni, anche a rompere gli equilibri ambientali più elementari, spianate boschi e colline e, appunto” tombate” i rii, come se li seppelliste sotto una bara di cemento!”
Doria non dorme se pensa a tutto questo e se alza lo sguardo al cielo verso l’autunno incipiente e al clima imprevedibile e scatenato che dall’altra parte dell’Atlantico scatena gli uragani come Katarina e qui piazza le “bombe d’acqua”.

Abbiamo fatto solo rattoppi, rammendi _ spiegano i tecnici comunali, ancora feriti dalla sciagura del 4-5 novembre 2011. Hanno speso o impegnato 270 milioni di euro su una mappa di rischio che non sembra avere confini. Non sono spiccioli, ma non sono nulla di fronte al secolo di errori e inerzia che ha preceduto.

Ci vorrebbero canali scolmatori, “traverse”, dighe, adeguamenti di reti “bianche e nere”, ma non ci sono i soldi. Si trovano a stento quelli per riparare gli ultimi danni… Lo scolmatore per “contenere” il killer dell’anno scorso, il Fereggiano, costa da solo 300 milioni di euro. Avevano cominciato a costruirlo negli anni Ottanta, poi scoppiò, non l’alluvione, ma una clamorosa inchiesta giudiziaria che fermò tutto e ammanettò alcuni esponenti politici socialisti, accusati di avere ideato l’opera per spartirsi mazzette. Inchiesta finita nel nulla, mentre la “talpa” che stava scavando quello scolmatore è rimasta sotto terra, arrugginita e inattiva.
Un’altra storia di spreco e di ingiustizia, una vergogna che lascia perfino una traccia in un foro che sbuca sulla spiaggia “nobile” di Genova, in corso Italia, là dove lo scolmatore si sarebbe dovuto sfogare.

Troppo cemento nel secolo passato e il sindaco-marchese ora passeggia sulle colline genovesi, a calcolare l’altro cemento che potrebbe arrivare con la costruzione dalla grande Gronda, la tangenziale che Genova ha già pronta, finanziata da Autostrade Spa, tracciata da decenni, corretta cento volte nel percorso, dibattuta pubblicamente per sei mesi dalla ex sindaco Marta Vincenzi. E’ un’opera essenziale per “sturare” non i rii e i fiumi, ma una città collassata di traffico, il suo porto che nel 2015 non saprà più dove mettere i container pieni e vuoti, che le banchine rovesciano a terra in un numero prevedibile di almeno tre milioni di teus (l’unità di misura moderna per questi scatoloni che portano la merce in giro per il mondo).

La Gronda o Bretella o tangenziale è un’opera immensa che collega quel porto alla rete di autostrade che si attorciglia nel nodo genovese. Sono piloni, ponti, svincoli, diventati come la croce sulla quale la città intera sta appesa dolorosamente in un confronto che schiera le sue molteplici anime, ambientaliste, di sviluppo, di infrastrutturazione fondamentale, di assedio per un isolamento sempre più pesante nel mondo che comunica con i supertreni, con l’alta velocità, con gli aeroporti hub e che qui si ferma in faccia al mare, che offre sotto costa i fondali più comodi del Mediterraneo, profondi, abbordabili, ma non tanto facilmente “scaricabili”.

Si aspetta il Via del Ministero dell’Ambiente per aprire i cantieri di questa Gronda-tangenziale di tutti i dolori genovesi. E Doria si aggira per le colline misurando le prossime colate, aspettando quella decisione come le trombe del giudizio. Non di quello Universale, ma forse di quello che potrebbe decidere, se si opporrà alla maxiopera, che il suo tempo breve di sindaco-marchese, erede di Andrea Doria, il grande condottiero della Repubblica, potrebbe avere i giorni contati.