Genova. Città dei misci in crisi, porto, industria, calcio da poveretti

di Franco Manzitti
Pubblicato il 22 Novembre 2012 - 08:55 OLTRE 6 MESI FA

GENOVA – A Genova soffia una tramontana gelata, quella che i vecchi chiamano tramontana scura, nella profonda Valle del Bisagno, dove scorre il torrentaccio delle ritmiche disgrazie alluvionali genovesi e dove la Storia ha accatastato i “rifiuti” della città di una volta: la Volpara, il luogo dove si bruciavano i rifiuti, i Macelli dove si facevano a pezzi gli animali, il monumentale cimitero di Staglieno, dove si seppelliscono i defunti, il  carcere, dove sono reclusi i vivi.

Ora la valle è un imbuto di ex fabbriche, di saloni per automobili, di supermarket, di magazzini che più risali verso l’Appennino dal mare sono a buon prezzo. Niente più Volpara, niente macelli, restano il carcere, monumento al passato e alla sofferenza presente e Staglieno immenso, bellissimo, inquietante con le sue gallerie buie e le colline piene di tombe marmoree, di pinnacoli in salita, di cappelle candide tra il verde, di campi di nuda terra a perpendicolo sulla collina che sale verso le alture, che si sbriciola nell’incuria, nella mancanza di fondi.

E resta, in fondo alla Val Bisagno, soprattutto, lo stadio di calcio Luigi Ferraris, il Marassi, come lo chiamano in tv, rifatto nel 1990 dall’architetto Vittorio Gregotti per i Mondiali di una delle speranze perdute di riscatto della città fu Superba. Trentacinque mila posti per vedere giocare a pallone il Genoa e la Sampdoria, lo stadio più inglese d’Italia per la vicinanza del campo verde agli spalti, dove le urla dei tifosi sono un rimbombo che si alza verso il cielo e poi rimbalza indietro, spinto dalle colline cementificate, quello che favoriscono le alluvioni e dalle quali precipitano i rii dai nomi sconosciuti fino quando non diventano assassini, come il Fereggiano dell’alluvione 5 novembre 2011, sei morti, l’ultima ferita dolorosa che ancora fa sanguinare Genova e che non si scorda.
Come non si scordano quelle altre alluvioni, che sempre d’autunno, sempre tra la fine di settembre e novembre, portano morte e distruzione.

Eccolo qui lo scenario spolverato da quella tramontana scura dell’ultimo derby, il derby dei misci, come lo hanno descritto per spiegare la condizione disperata delle squadre genovesi di calcio, il Genoa, ultimo in classifica con nove punti e la Sampdoria con dieci, penultima.
Una città miscia nel calcio, malgrado sia l’unica, oltre Roma, Torino e Milano, a schierare in serie A due società, ma che poi le fa stare appese per un pelo alla classifica: qui ci sono ben più avanti squadre di città piccole, meno storiche, come Udine, Parma, Pescara, Bergamo, e perfino un quartiere di Verona, Chievo.

Il derby dei misci nella citta dei misci (miscio: misero, poveretto, a secco secondo la traduzione del Nuovo Vocabolario di Alfredo Gismondi), lo ha vinto un po’ inaspettatamente la Sampdoria che veniva da sette sconfitte consecutive, mentre il Genoa ne aveva sul groppone cinque, per un totale di dodici debacles genovesi.

E il rito del derby è andato in onda come se niente fosse, con i vincitori esultanti e gli sconfitti rincagnati intorno a quello stadio acceso come una lampadina in mezzo a quella valle immersa nel buio di novembre, il buio pesto non solo dei luoghi, nella sera di autunno, quando le giornate si accorciano a sforbiciate violente.

Un rito quasi tribale per l’ora e mezza della partita nel vuoto della città di Genova nella quale solo quella tradizione sembra essere rimasta in piedi, viva, mentre tutto il resto, non solo il cimitero si sfarina, corroso dal tempo, dall’incuria degli uomini, dai ritmi della crisi, dalla mancanza di un modello di città che cerca il suo destino oramai solo in mezzo al declino delle vocazioni di cui nella Valbisagno dello stadio, della partita più sentita del derby, non puoi vedere neppure l’ombra.

In tribuna d’onore stava seduto come un Ufo il sindaco Marco Doria. Marchese dai magnanimissimi lombi, presente per dovere istituzionale, non certo un tifoso di calcio o un competente, comunque un leader nuovo che raffigura quasi questa età genovese da ultimi in classifica, con il suo tratto dignitoso, la sua parte politica di sinistra radicale, dura e pura, sobria ma con stile da sangue blu che più blu a Genova non ce ne è, il suo sistema nervoso da discendente di Andrea e Branca Doria, che ne hanno viste di tutti i colori in tutti i secoli, figurarsi una partita di pallone nella città in sofferenza.

Accanto a lui c’era il presidente vicario della Sampdoria, Edoardo Garrone, figlio di Riccardo, a sua volta figlio di Edoardo I, fondatore di una dinastia di petrolieri, che oggi a Genova hanno solo uffici e prestigio e denari, ma non più stabilimenti, raffinerie, operai di un impero quasi completamente riconvertito nel settore delle energie rinnovabili. Potrebbero benissimo abitare altrove, ma sono radicati qua di forza con la Samp, con la Fondazione Garrone, con le sponsorizzazioni, gli affetti e gli affari e il filone Erg allacciato nei gangli della città.

Ma come sono lontani i tempi nei quali quel nome, quella dinastia occupavano l’altra valle, parallela a questa del Bisagno. la Valle del Polcevera, sede delle raffinerie dove bruciava, ai piedi della montagna del Santuario veneratissimo della Madonna della Guardia, la fiamma sempre accesa di quella raffinazione.

Allora la trattativa per spostare via quei depositi di petrolio dalla zona industriale, ma densamente popolata, degli ex comuni, oggi delegazioni della Grande Genova di Mussolini, più operaie che la storia italiana ricordi tra Pontedecimo, Bolzaneto, Rivarolo, Trasta, zoccolo vero del primo insediamento industriale italiano, voluto anche da Cavour, era uno dei temi politici più forti che ci fossero.

Era su quel terreno da puzza di benzina, di depositi alti come cattedrali, di tubi, oleodotti sbiscianti verso le colline, via vai permanente di cisterne, che si giocava la partita tra i padroni Garrone e i sindaci di sinistra delle giunte rosse che governavano una città dove il Pci aveva il 43 per cento dei voti e a palazzo Tursi sedeva un sindaco socialista lombardiano, come Fulvio Cerofolini, scomparso due anni fa, a capo di una maggioranza che con i petrolieri doveva trovare accordi per modificare l’assetto della Valle Polcevera, spina dorsale nel Ponente operaio genovese, tra la pista dell’aereoporto Cristoforo Colombo, il grande stabilimento ex Italsider oggi dell’Ilva dell’industriale Riva, le manifatture pronte a chiudere una ad una salvo eccezioni fino al passo dei Giovi.

Oggi la chiamano la nuova Ruhr, ma al posto delle industrie storiche ci sono Ikea, Aquilone, Castorama, Unieuro, fabbriche di gelati, mercati all’ingrosso di ogni qualità e la desertificazione postfordista cpon brandelli di memoria anche eleganti, come la nobile sede della Fondazione Ansaldo nella villa dell’Olmo, il luogo dove si custodiscono gli archivi di quello che fu.

Ultimi in classifica nel calcio, con i Garrone che inghiottirono il boccone di rilevare la Sampdoria sull’orlo dell’abisso dodici anni fa e con il Genoa che è di Enrico Preziosi, il joker, il presidente di origine avellinese e affari mondiali con fabbriche dalla Brianza a Honk Kong, il secondo gruppo europeo nella costruzione e commercializzazione dei giocattoli, da Ciccio Bello ai Gormiti, quei mostriciattoli di plastica che fanno impazzire i bimbi di mezzo mondo.

Ultimi in classifica a giocare gli uni contro gli altri nel calcio appeso alla serie A, ma travolto da polemiche, contestazioni che accomunano i Garrone genovesi incardinati e Preziosi, “lo straniero” caduto in disgrazia e pronto a lasciare. Ma a chi, se nessuno ha le “palanche” necessarie?

Nella notte di tramontana scura del derby da misci Preziosi non era allo stadio, non poteva esserci, perchè la giustizia ordinaria gli aveva applicato una pena accessoria alla condanna passata in giudicato per il reato di frode sportiva, commesso comprando per la modica cifra di 250 mila euro l’ultima partita del campionato di serie B del 2005 contro il Venezia, quando il Genoa stava tornando in serie A dopo dieci anni di assenza e avrebbe dovuto incontrare quel Venezia già addomesticato dal Torino, interessato, anch’esso alla promozione.

Strani e tortuosi percorsi che la giustizia lenta e con il contagocce ha contabilizzato, impedendo per sua fortuna al presidente rossoblù di assistere de visu, seduto sulla poltrona del Marassi all’ultima beffa: la sconfitta nel derby.

Eppure né Garrone, né Preziosi, né tanto meno il nobile signor sindaco Marco Doria, sono personaggi da fondo della classifica. Si guardi il fatturato dei due imprenditori e la storia del primo cittadino discendente di Andrea Doria, anche se attraverso rami trasversali, per smentire quel vento da serie B che veniva giù con la tramontana nella valle Bisagno e poi spazzava tutta la città rattrappita in uno dei suoi autunni più cupi del Dopoguerra.

Le squadre in bilico, con la Samp, che riesce ora ad emergere dalla botola che porta alla serie B, sono per una volta in sintonia con il ritmo negativo delle notizie che investono Genova da mesi e mesi. Il calcio va ko come la città.

Il metrò, che potrebbe sturare il traffico asfittico di una città lunga e stretta non riesce ad arrivare alla Stazione Ferroviaria di Brignole, dove la prima carrozza è attesa invano da anni. La notizia è arrivata alla vigilia del derby: Genova sta costruendo la sua metropolitana da circa trent’anni e le ha fatto percorrere sette chilometri più cinquecento metri, grazie allo sforzo, si fa per dire, di sette sindaci. Sette sindaci Campart, Merlo, Burlando, Sansa, Pericu, Vincenzi, Doria per portare a casa un chilometro ciascuno. Ma non c’è solo il paradigma della lentezza, nella lenta agonia genovese.

Non riesce a partire nulla di nuovo e l’unico business sono da anni i pesci dell’Acquario, gestito dagli eredi della mitica famiglia Costa, che richiamano milioni di visitatori all’anno. Non si riesce più neppure a vendere ai privati l’aeroporto Cristoforo Colombo, un milione e spiccioli di passeggeri all’anno, malgrado la posizione, il clima e gli esempi non stratosfericamente lontani di Pisa e di Bergamo, per non dire di Nizza che dista duecentocinquanta chilometri e qualche decina di milioni di passeggeri.

Il derby dei misci fa urlare di tifo, su spalti prevalentemente fitti di pensionati e ultrasessantenni, in una città che ha l’indice di vecchiaia più spinto dell’Europa e probabilmente del mondo. A Genova e in Liguria gli ultracentenari sono quasi un migliaio e questo sarebbe un record da lisciarsi i baffi per la sottintesa qualità della vita che si garantisce, se non fosse ritmato dall’exodus vero e proprio delle nuove generazioni, che non per migliorare la loro posizione, ma per sopravvivere sono costrette a emigrare: ovunque, da Novi Ligure, all’Australia, dall’immediato oltre Appennino agli antipodi per trovare una prospettiva di lavoro e di vita.

Il “sale” dell’economia genovese, cioè il porto, ha un incremento di traffico negli ultimi anni, sta in qualche modo scavallando la crisi e approfittando dei Far Est e delle nuove correnti di traffico, che da qui devono passare, ma entro il 2016 il mitico scalo di Genova sarà strangolato, perché nel frattempo della sua crescite, della sue frenate, del rischio declino e della ripartenza per usare un termine calcistico, non si è costruito un metro delle infrastrutture necessarie. Venti anni fa era il decimo porto del mondo e oggi è il settantatreesimo. Di fronte a questa classifica i genovesi si voltano indietro.

I binari ferroviari non escono dalla cinta portuale. Solo Tir e trasporto su gomma a intasare strade e autostrade, a inquinare e a scaricare container ovunque ci sia un pezzo di terra in pianura.

Il Terzo Valico, atteso da 110 anni per collegare via ferrovia Genova e la pianura padana, con il sogno aggiuntivo di un collegamento rapido, anzi rapidissimo tra Genova e Milano, sta partendo, ma è come se fosse un’opera carbonara: il Cipe ha già stanziato 7 milioni di euro per la costruzione dei primi lotti propedeutici a una galleria di 35 chilometri nella pancia dell’Appennino, da Genova a Novi Ligure, da dove poi connettersi alla via maestra del Corridoio Europeo, che deve collegare Genova a Rotterdam, attraverso i trafori alpini che la Svizzera ha già quasi concluso. Buchi nelle Alpi già scavati, mentre in Liguria non hanno ancora incominciato a grattare la pancia molto più dolce degli Appennini.

I no Tav sono già in agguato e le manifestazioni si susseguono tra il Basso Piemonte e la periferia genovese. Un cantiere, più cantieri dell’Alta Velocità aprirebbero un fronte non solo di contestazione, ma scuoterebbero il tasso di disoccupazione, di sottoccupazione che schiaccia la città come la cappa di piombo dei cieli alluvionali. Non solo disoccupati, sotto occupati, ma anche “rassegnati”, la nuova categoria che il sindacato ligure ha classificato oramai come endemica nel quadro lavorativo genovese: chi non cerca neppure più lavoro, tanto non ce ne è.

Nella città dei misci si aspetta la svolta, si sogna che finalmente sulla collina degli Erzelli, dove si sono già insediate la Ericsson e la Marconi, parta l’industria del futuro progettata da Carlo Castellano, ex manager dell’Iri oggi motore dell’unico progetto di futuro puntato sul collegamento tra ricerca, Università e imprese hig tech.

Ma l’Università di Ingegneria sostiene di non avere i fondi per pagarsi il trasloco dalla nobile sede di Albaro, quartiere residenziale chic , alla collina sopra il Ponente genovese e quel disegno non parte definitivamente. Si sogna anche che si sblocchino le opere infrastrutturali, destinate a “liberare” la Città dall’isolamento asfittico delle autostrade intasate, ma tutto procede a passo di lumaca. Un passo da misci, come quello dei giocatori nel derby in fondo alla classifica.