Nando Rollando, la storia dell’alpinista dall’Afghanistan al Monte Bianco

Nando Rollando, la storia dell'alpinista dall'Afghanistan al Monte Bianco
Ferdinando Rollando (Foto Facebook)

GENOVA – Chissà quando mai li troveranno, se li troveranno, Ferdinando Rollando e Jassim Mazouni, sepolti insieme sul Monte Bianco in un giorno o forse una notte di luglio, in un crepaccio o ai piedi di una roccia della cima più alta, della montagna più sfidata, della arrampicata più affascinante? Forse mai, neppure fra cento anni, o forse prima la montagna li resistituirà, perchè la montagna ti prende, ti affascina, ti inghiotte come niente al mondo, neppure il mare crudele delle tempeste e poi, a differenza delle onde e dei pesci, ti può restituire dal sacrofago di ghiaccio, di pietre, di neve eterna che ti ha scelto.

Ferdinando, guida alpina di 52 anni, uomo di montagna, ma anche di tanto altro, architetto, volontario che andava in Afghanistan a insegnare come non morire sotto le valanghe e come camminare sulle nevi con gli sci, questo lo sapeva bene, di una certezza calma come hanno tutti quelli che amano la montagna di un amore esclusivo senza uguali nella testa degli uomini: si può sparire anche se le tue mani e i tuoi muscoli, i tuoi occhi, il tuo cuore sono fatti apposta per stare lassù, appeso a una corda con le nuvole intorno e l’abisso sotto la suola delle tue scarpe di vibram e il corpo scaldato dal Goretex della tua divisa da alpinista vero.

Si può sparire se il tuo scarpone ha pestato quella roccia e quel ghiaccio decine di volte e i tuoi occhi hanno misurato le nuvole e il sole e il vento e le tempeste e sai bene quando si può e quando non si può salire, sfidare, tornare con quella luce negli occhi.

Anche Jassim Mazouri, di 16 anni, ragazzo di Parigi, con il nome africano ma la vita nella grande metropoli e la montagna già nel sangue, forse lo aveva capito che la scalata è così, che il brivido è il rischio, che usi tutte le tue forze, le tue capacità e che sali e più sali e più vali e più sali più funziona il tuo accordo con il compagno che ti guida e ancor di più se quello è un maestro come Ferdinando, la guida delle guide che solo a guardarlo sembrava un pezzo di roccia: dal duro dei suoi muscoli e da come le cime gli brillavano negli occhi e nelle lingua, quando parlava della montagna.

Ferdinando e Jassim sono spariti il 9 di luglio, mentre salivano dal Rifugio Gonnella verso la cima del Bianco, approfittando di una schiarita nelle nuvole che li avevano fermati alle due, quando stavano lasciando quella capanna all’ora giusta per arrivare in cima lungo la via italiana, la più selvaggia, la più “vera”.

Ferdinando quella “pista” l’aveva già salita decine di volte e il Bianco centinaia di volte. Sapeva tutto, anche che c’era quello che potevi non prevedere. Spariti sotto la nevicata, inghiottiti da quel bianco che ti brucia gli occhi se solo lo scruti, sprofondati in
qualche voragine o travolti da qualche slavina di un’estate strana dopo un inverno strano? Li hanno cercati per giorni e giorni la Guardia di Finanza, il Soccorso Alpino con gli elicotteri che sembravano mosche a grattare la roccia e il ghiaccio del gigante bianco, sono scesi a decine di guide, di alpinisti, di amici di Nando a cercare una traccia, il colore di un calzettone nel bianco abbacinante, lo straccio di una corda, un rampone.

Non si sono rassegnati in quel silenzio che è già una tomba della montagna dopo, perché la storia di Nando e di Jassim è una storia diversa anche nel rispetto di tutti quelli che sono saliti su per le montagne e poi non sono tornati e le rocce e la neve se li sono presi per sempre e ogni tanto ne restituiscono qualcuno, magari dopo anni e anni in qualche parte del mondo, in quel circuito di vette, di altitudine, di confini tra la terra e il cielo che è quello che ci frega, ci affascina, il limite da sfidare che se lo tocchi sei felice e, se non arrivi, ti risfiderà di nuovo. Questo è sicuro.

E la felicità era quella che trovavi negli occhi di Nando, quando parlava della montagna, di tutte le montagne e quando gli camminavi vicino, anche “in basso”, anche in città e misuravi quello scatto della sua gamba, quella macchina del suo corpo che era come una molla fatta posta per salire in alto dovunque.

E il lampo di quella felicità era la stessa che aveva anche Jassim, già salito sul Monte Rosa a quindici anni, affidato dal padre a Nando, come si affida la cosa più importante che si ha, ma nel nome della fiducia, ma anche di una passione comune, come una febbre assoluta: salire, salire in cima, verso i confini. “Sarei salito anche io – ha raccontato dopo quel padre – ma avevo un ginocchio malmesso…”.

Era nato a Vernazza nel cuore delle favolose Cinque Terre, Nando Rollando ed era cresciuto a Sestri Levante, dove avrebbe dovuto tornare in questi giorni a celebrare gli ottanta anni di sua madre. E ora viveva tra Ollomont in val d’Aosta, sotto le montagne e faceva la guida alpina ma non certo solo quello, e il resto del mondo, sopratutto di quello in salita.

Era un uomo curioso, come molti di quei liguri che poi sono rapiti dalla montagna e sanno che i due confini, quello davanti al quale nasci, il mare e l’altro che ti alza, verso il cielo, sono una sfida quotidiana, così diverse e così uguali, tanto provocatoriamente simili, che non puoi evitare.

Non lo eviterai mai e la cercherai ovunque quel limite da superare. Te lo ha insegnato l’infinità del mare e l’orizzonte da bucare della vetta. Aveva due figli, già un po’ più grandi di Jassim, Ernesto e Virginia, che ha scritto su Facebook che con suo papà se ne è andata una parte della sua vita. Che papà un po’ matto era Ferdinando, che li portava bambini dove nessun papà portava i suoi bambini, fuori dalle piste da sci, in mezzo ai boschi e alle rocce, tanto per spiegare che la montagna vera era quell’altra, da conquistare “fuori pista”, a saltare tra gli alberi.

La montagna per lui era la montagna dovunque, non solo intorno a Ollomont, un pugno di case sopra Aosta, verso il Gran San Bernardo.

E così, dopo che Nando aveva esplorato ogni pietra delle “sue” montagne e aveva cercato i monti ovunque nel mondo ed era diventato una guida esperta, quando a Chamonix, dall’altra parte del Monte Bianco, arriva un emissario dell’Aga Khan Karim, quello della Costa Smeralda e che i suoi sudditi gli regalavano ogni anno tanto oro quanto lui pesava, uno da “mille e una notte” e chiede chi può essere l’alpinista cui affidare una nuova grande missione di montagna, neve e rocce, in Afghanistan, il paese che soffre lassù, tutti dicono un solo nome: Nando.

E’ il 2010 e l’Afghanistan sta come sappiamo e questo Aga Khan vuole fare qualcosa per quel popolo disperato tra le montagne, stretto tra le guerre russe e americane e una natura selvaggia e cattiva. Vuole creare un’oasi di pace in mezzo a quei monti.

Nando è una delle mille guide strapatentate che bazzicano intorno al Bianco, ma sa le lingue, è evoluto, ha girato il mondo, è stato a scoprire perfino la Cina, sa di Oriente e di Occidente e scelgono lui, perché è Nando e basta guardare quei muscoli, quella passione, quello sguardo che si accende ogni volta che ragioni di montagne.

La storia dell’Afghanistan e della sua passione per quegli altri monti così diversi dalle Alpi, l’ha raccontata lui a Blitzquotidiano in una intervista che si era interrotta e che avrebbe dovuto raccontare anche il seguito di questa missione, il suo arrivo tra quei monti, la creazione dell’Onlus Alpinstan, il progetto di creare il turismo a Damian, la famosa oasi di pace.

“Laggiù si ignorava perfino l’esistenza degli sci – aveva raccontato Nando, spiegando come la mission “turistica” aveva anche urgenze molto più impellenti – Bisognava insegnare a proteggersi dalle valanghe che precipitano e uccidono a centinaia e distruggono interi villaggi”.

E’ così che Alpistan diventa una Ong internazionale, registrata, che le organizzazioni mondiali finanziano non con milioni ma con cifre, comunque, utili a incominciare un lavoro di protezione e di insegnamento a popolazioni che vivono a un’altitudine tra i tremila e il cinquemilacinquecento metri e che non sanno nulla.

Cosa hanno visto fino ad allora? La guerra, gli eserciti invasori, le truppe tecnologizzate, i radar, i satellitari e loro non hanno neppure un paio di sci e l’equipaggiamento è quello di un popolo povero, ricco magari solo di burka per nascondere le donne.
Ecco come e quanto può diventare grande e generosa la passione per la montagna e come si trasforma dalla passione-sfida di arrivare in cima a una vetta nel mondo civile e occidentalizzato in una azione umanitaria!

Ascoltare Ferdinando Rollando, che parla della montagna in questi termini, era emozionarsi per una mobilitazione civile, umanitaria e anche un po’ finanziaria in un luogo che ha sempre significato guerra, sangue, fanatismo religioso, precari equilibri di potenze mondiali, giocati in quel posto incredibile, tra grotte, neve, rocce e appunto valanghe.

“Altro che insegnargli a sciare, prima bisognava salvarli dalle valanghe – ammoniva Nando, ricordando le centinaia di morti anche recenti, le tragedie che cambiavano perfino la geografia di quelle valli sprofondate in catene montuose così diverse dalle nostre – D’altra parte in Europa nel Dopoguerra c’erano sulle Alpi almeno trecento morti all’anno per le valanghe”, ricorda ancora Nando, spiegando come quel rischio che la montagna ti rovesciava addosso può continuare a colpire chi è indifeso, chi non è attrezzato, chi riesce magari a schivare i razzi dei russi e degli americani, i bombardamenti a raso degli aerei che si infilano nelle gole inaccessibili di quelle montagne, ma è impotente quando la neve si stacca e diventa valanga.

“Ero appena arrivato là e una valanga si era portata via un villaggio intero: 50 morti”, spiegava la guida alpina alle prese con un altro mondo, che poi era ancora il suo mondo.

Era riuscito a mobilitare tanta gente Nando in quella sua operazione umanitaria. Aveva conquistato anche l’allora ministro degli Esteri Franco Frattini, un uomo di montagna e di sci, che nel suo ruolo così importante aveva dato una grande mano ad Alpistan e che aveva capito bene qual era lo spirito di Rollando, nato a Vernazza, cresciuto in Liguria, diventato montanaro.

“Volevo usare le mie capacità alpine laggiù, non in Europa magari solo per far salire in cima ai monti qualche ricco annoiato “, spiegava Nando lasciandosi scappare uno sguardo un po’ più duro. Quella volta dei 50 morti ci aveva provato a correre a salvarli sotto la coltre bianca. La sua squadra di emergenza non era arrivata in tempo e lui stringeva i denti con rabbia, pensando come in tredici anni di occupazione militare di quei monti la cosidetta civiltà degli invasori non aveva portato nessun risultato per proteggere popolazioni già così impegnate a salvarsi dalla guerra.

Che destino! In quella chiacchierata con Blitzquotidiano, Nando aveva raccontato dei suoi amici montanari, di quelli da cui aveva imparato e quelli che erano caduti in alto prima di lui, come se avesse un presentimento.

Aveva raccontato dei grandi scalatori, di Roberto Piombo che a 24 anni aveva deciso di fare la guida alpina ed era precipitato, di Gianni Calcagno, il genovese, uno dei più bravi al mondo, che nel maggio del 1992 a 49 anni era rimasto per sempre su una montagna dell’Alaska, dopo avere scalato quasi tutti gli Ottomila. E ancora lo piangono.

Ha parlato di Alessandro Gogna, suo amico, autorevole e forte che, mentre ancora cercavano lui sul Bianco, ha spazzato via le accuse di essere stato imprudente, di essere salito sul Bianco quando le condizioni erano pericolose. Li raccontava questi personaggi, italiani come lui, rimasti lassù o ancora impegnati a arrampicare e a rendere i monti più sicuri, per spiegare la passione che spazza via tutto.

“Ho fatto l’architetto, ho fatto l’impresario edile – raccontava – poi la montagna si è presa tutto, le Alpi, l’Afghanistan…”.

Sarebbe tornato là dopo l’estate. Aveva tanti soci in Alpistan e tanti amici. Gli davano i voli militari per salire tra le montagne, nei villaggi sperduti che aveva filmato con i suoi amici di avventura. Lo aiutavano e le immagini di quella missione sono circolate per il web dopo che hanno sospeso le ricerche sue e di Jassim. Si vede un Nando che parla con le popolazioni afghane, che spiega l’uso degli sci, con un grande cappello in testa, gli occhiali scuri e si vedono i sorrisi dei bambini afgani che imparano a sciare su quell’altopiano, dove solo il bianco della neve è simile alle nostre montagne.

Salire, arrampicare, calcolare i rischi, sfidare ma non oltre, sapendo che può finire male, ma andarci lo stesso: Nando ci aveva lasciato il numero del suo cellulare. Sapevamo che se chiamavamo avrebbe suonato in alto, molto in alto, magari sopra Kandahar o in mezzo a qualche villaggio dall’altra parte del mondo. Invece quel telefono ora è muto, quasi sopra le nostre teste, sulle montagne di casa perché la montagna è crudele e ti prende quando non lo sai, anche se lo hai messo in conto. Che la neve ti sia leggera Ferdinando.

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