Genova tra Beppe Grillo e i cinesi: la nebbia del declino

 

castelletto a genova
Genova, lato orientale, vista da Castelletto (di solito la nebbia non si vede anche se c’è)

L’ultimo colpo di coda di un inverno che non finiva mai aveva svegliato Genova, la ex Superba in una mattinata di aprile, avvolgendola misteriosamente e in modo assolutamente inedito in una coltre di nebbia impenetrabile, manco fossimo sulle rive basso padane del Ticino.

Era una mattinata di inizio aprile e dalla collina di Castelletto, che sovrasta i caruggi sprofondati nella loro storia, ma anche in un avanzante degrado, non si scorgeva nulla, nemmeno se ci si appostava dove il poeta Giorgio Caproni, in un verso memorabile per los zeneises, aveva immaginato che ci fosse il Paradiso e che se un giorno lui ci fosse voluto salire lo avrebbe fatto prendendo quell’ascensore, che si arrampica lassù, Castelletto, la collina tranquilla, borghese, di costruzione ottocentesca.

“ Se un giorno vorrò andare in Paradiso, allora lo farò con l’ascensore di Castelletto”

scriveva il vate della bellezza oggi ovattata, lattiginosa, bianca, che cancellava l’ardesia grigia dei tetti, ma anche lo sfondo blu del mare, l’arco delle praterie celesti-azzurre-indaco-grigio-nero, che da Portofino a Capo Mele stringono, a seconda del vento e della luce, la visuale, appunto paradisiaca della Liguria.

Non si vedevano più le grandi navi porta container che escono o entrano dalla bocca del porto, navi immense con gli scatoloni appilati, affiancati, tanto grandi e numerosi da chiedersi come reggerebbe quel carico in una tempesta o davanti a un vero colpo di mare.

Yang-Ming, Chine Line: grandi scritte sulla fiancata di queste cattedrali del mare che viaggiano avanti e indietro.

genova ascensore
Genova. La stazione d’arrivo dell’ascensore che porta a Castelletto

Beppe Grillo, l’inventore genovese delle 5 Stelle, dalla collina di sant’Ilario, molto più a Levante del Paradiso e della bocca del porto, può pure urlare che quei container sono tutti vuoti e che, quindi, ogni mezzo per velocizzarne il trasporto, quando le gru immense li avranno scaricati sulle banchine, è inutile da costruire, sia esso il famoso Terzo Valico del treno veloce da Genova a Milano o sia la Gronda autostradale, sognata da decenni e mai neppure cominciata. Tutte menzogne della Casta, tutte opere inutili per  Beppe Grillo e i suoi grillini.

I cinesi portano avanti e indietro scatoloni vuoti, contribuendo a mantenere l’unico asset che ancora funziona nella Genova dove la nebbia vera copre quella metaforica della più totale disfatta economica dalla fine della guerra?

I cinesi non scherzano, non stanno invadendo per finta, come aveva cantato e vaticinato trenta anni fa uno dei cantautori genovesi più noti Bruno Lauzi:

“I cinesi arrivano cantando, arrivano e sono milioni di milioni……”.

Qua non sono milioni, ma si moltiplicano come le formiche e dentro a quella nebbia hanno già conquistato gli ombelichi storici e i luoghi-chiave della ex Superba, non solo le banchine terminal di Yang Ming e di Chine line.

Centiniaia e centinaia di botteghe di quello che erroneamente si definiva angiporto e che era il reticolo dei caruggi fronte mare, delle strade che da lì partono, come la mitica via Prè, una volta passerella dei marinai americani di stanza con le portaerei nel porto di Genova e teatro della mala dolce dei nonni simpatici e gentiluomini della camorra di oggi. Contrabbandieri di sigarette, di cioccolato svizzero, gestori di rutilanti night club dai nomi fantasiosi e americaneggianti, protettori di prostitute indigene o massimo partenopee, un tutt’uno con i caruggi.

Altro che la mala organizzata di oggi, i camorristi violenti e arroganti, tangentari da pizzo violento, magnaccia di eserciti di donne di ogni razza, schierate in ogni portone e anche fuori, bande di latinos equadoriani, con il berettino a visiera e lo sguardo cattivo, drappelli di nordafricani, nigeriani pusher di ero e coca, ghanesi infidi, albanesi oramai già “sistemati”, diventati imprenditori di buoni, ma anche cattivi business.

La primavera trionfante spazzerà questa nebbia cinese che avvolge perfino gli ombelichi storici dei caruggi (uno degli edifici strategici della storica Piazza Campetto, comprato da una centrale del benessere di Pechino, tre piani di massaggi, saune e fitness dove c’erano orafi e botteghe storiche e scagni di spedizionieri e brokers), ma resterà la coltre spessa di un declino, stesa come una coperta asfissiante di non sviluppo.

Non è solo una questione di mutazione quasi genetica del territorio urbano, dei palazzi storici occupati dai cinesi o, come capita per il gioiello di Palazzo Serra Gerace, sul fronte del porto storico, che diventa la sede di un altro Mac Donald, è tutto il contesto dell’ex vertice del triangolo industriale che si sfarina.

Nel palazzo che ospitava fino agli anni Novanta alcuni dei più importanti giornali genovesi e delle agenzie di stampa, dove le rotative rullavano dalla notte alla mattina e al pomeriggio, sfornando “Il Secolo XIX” e “Il Corriere Mercantile”, oggi c’è uno di quei supermarket dove compri tutto a due euro e i piani superiori sono deserti e spenti, come se si fosse azzittita anche la voce della città.

La grande crisi post industriale degli anni Ottanta, che ha inginocchiato la Superba, cancellando le più importanti aziende delle Partecipazioni statali come se fossero le briciole da un tavolo di leccornie, via Italsider, Italimpianti, Italcantieri, via le Riparazioni navali, spezzettata la Ansaldo, non è più neppure una nebbia silenziosa e assassina.

E’ un ciclone sul quale la Fincantieri si regge in piedi a malapena con il suo cantiere navale di Sestri Ponente, salvato da una-commessa-una, la Selex conclama la sua crisi mondiale, mettendo in discussione 1.250 posti di lavoro, la Ilva di Riva dipende dall’ossigeno che arriva da Taranto, se ancora ne arriva con quelle navi di prodotto siderurgico da ingollare nella lavorazione residuale della grande Acciaieria oggi “a freddo” con i suoi meno di mille operai, che trenta anni fa erano dodicimila.

Il sogno postindustriale, che dovrebbe prendere forma sulla collina degli Erzelli, la patria dello high tech, sulla quale hanno scommesso i pochi ottimisti di una città in depressione spinta, stenta a formarsi perché l’ Università impiega anni a decidere se trasferire in questo luogo, creato sul tetto del Ponente genovese, quelle alture che fanno da anfiteatro al grande porto, la sua Facoltà di Ingegneria.

Su quella operazione hanno puntato anche grandi multinazionali, come la Siemens e la Ericsson, già trasferita prima di mettere in cassa integrazione molti dei suoi colletti bianchi. Si procede a stantuffo tra progetti e grandi disegni del futuro come questo, basato sulla santa alleanza tra Università, ricerca e imprese del futuro, e veri e propri crolli di sistema.
Si è sempre detto che questa città, fondata sull’ Iri, sul suo indotto, sul grande porto degli ex primati mediterranei, assorbiva con un certo ritardo i colpi delle crisi e i rilanci dei boom economici.

Ora la Grande Depressione, incominciata nel 2008, è arrivata al suo clou in quel contesto postindustriale già “minato”.
Vanno in cassa integrazione oltre il 50 per cento dei dipendenti della Fiera del Mare, vetrina del celebrato e oramai scoppiato Salone Nautico Internazionale, di Euroflora e delle altre esposizioni residuali di un quartiere affacciato sul mare, diventato un cimitero di Padiglioni, al punto che la famiglia dei petrolieri Garrone, propietaria della Sampdoria, sta insistendo per costruire lì lo stadio di calcio modello Juventus con una proposta che la città culla almeno come una ipotesi di non declino.

Saltano come tappi i bilanci della Amt, l’azienda comunale dei trasporti. Un sindaco oculato come Giuseppe Pericu nel 2005 aveva cercato di salvarla con una ardita operazione economico amministrativa, costatagli una serie di processi davanti alla Corte dei Conti. Ci sono, tra gli autobus, le funicolari, gli ascensori pubblici, come quello del Paradiso del poeta Caproni, 530 esuberi da sentenziare subito.

Altro che Paradiso questo, diradata la nebbia, è un vero Inferno, con il sindacato che non sta più dietro agli annunci di cortei, manifestazioni, vertenze, con la Regione, il Comune, la Prefettura assaltate ogni giorno da una protesta che riempie le strade, le piazze , le aule consiliari.

Trema perfino la cassaforte per antonomasia della città, la Carige, la Cassa di Risparmio di Genova e Imperia, passata negli ultimi dodici anni dai settanta sportelli locali ai settecento sparsi in tutto il paese, attraverso una politica di acquisizioni che l’aveva fatta risaltare come esempio nel panorama finanziario italiano, sesta banca per patrimonializzazione, autonoma, non scalabile, controllata al 47 per cento dalla Fondazione omonima.

Oggi che la tempesta bancaria non ha più confini, quel meccanismo di non scalabilità e di autoblindatura, si ritorce contro.
Banca d’Italia ha infilzato la riforma con la quale la Carige si doppiava, costituiendo una Carige Italia, nuova società dedicata alle imprese fuori dai confini genovesi e liguri, imponendo una ricapitalizzazione da 800 milioni di euro che fa tremare le fondamenta dello storico istituto. Si salvi chi può: Carige dovrà vendere le società di assicurazione, la famosa e prestigiosa Banca Ponti che acquistò a Milano e forse tutto questo non basta……

D’altra parte chi ha finanziato le grandi operazioni di salvataggio genovesi degli ultimi lustri, a partire dagli Erzelli del futuro high tech? Chi ha messo una pezza alle superstiti imprese armatoriali, come la famosa Festival del desaparecido armatore greco-cipriota Poulides?

Gli armatori? Una volta erano il “sale” dell’economia cittadina, il vanto della potenza marittima e se ne contavano decine, grandi e piccoli. Oggi la categoria è ridotta a imprese che si contano meno che sulle dita di una mano, Premuda, Novella, oltre ovviamente a Messina.

Lo scatafascio dei noli, il crack dei trasporti marittimi, che fa arrugginire migliaia di navi nelle rade di Hong Kong, qui ha ucciso uno dei mestieri originari di una potenza a quel tempo definita, non a caso, “Superba”.

Che resta sotto la nebbia? Una città imprigionata in cantieri, che si fermano come il suo respiro produttivo, opere di restyling travolte a metà dalla crisi.

Il piazzale del più importante ospedale di Genova, quello di San Martino è diventato un buco nero, un pozzo che doveva ospitare un mega autosilos e che ora il fallimento delle imprese costruttrici ha lasciato lì a imputridire, in modo che le autoambulanze con a bordo i malati devono fare le gimkane per raggiungere i reparti ospedalieri.

Il più bel parco della città, Acquasola, giardino seicentesco di mirabile equilibrio ambientale e urbano, a un passo dalle piazze centrali della città, è sequestrato da anni dalla magistratura in una guerra di corsi e ricorsi tra il Comune, gli ambientalisti, le imprese edili che avevano vinto una gara per costruire l’immancabile e incostruibile autosilos.
Si seccano le vasche dei cigni, si inaridisce il verde, muoiono gli alberi, come se fossimo in una periferia abbandonata e non al cuore della città.

Le due stazioni ferroviarie di Principe e Brignole, che dovrebbero collegare la città all’Alta Velocità, capace di togliere Genova da un isolamento dei trasporti e dall’assedio del trasporto su gomma (almeno 4-5 mila Tir al giorno), sono da più di un lustro cantieri in costruzione che non finiscono mai.

Forse in queste condizioni, è meglio la nebbia, che tutto nasconde.

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