Finanziamento partiti. Da Enrico Letta decreto surreale

di Gennaro Malgieri
Pubblicato il 15 Dicembre 2013 - 11:13 OLTRE 6 MESI FA
Finanziamento partiti. Da Enrico Letta decreto surreale

Enrico Letta e il finanziamento dei partiti: ok li abbiamo fregati tutti.

È a dir poco surreale il decreto con il quale il Governo Letta abolisce l’attuale sistema di finanziamento ai partiti e ne regolamenta uno nuovo.

Surreale perché è come se il varo della normativa che soppianta quella vecchia avvenisse in una sorta di Eden politico popolato da cittadini bramosi di contribuire alla crescita, allo sviluppo e ad assicurare un futuro ai partiti politici. Infatti, nel provvedimento adottato dal Consiglio dei ministri venerdì 13 dicembre, giorno di Santa Lucia che evidentemente tra i suoi miracoli non contempla la restituzione della vista ai politici, oltre al regime transitorio che dovrebbe aver termine nel 2017, si prevede che fin da subito, dal prossimo anno dunque, la vita delle forze politiche dipenderà esclusivamente dalla generosità dei cittadini, dal loro buon cuore.

Infatti potranno destinare ai soggetti che riterranno il 2 per mille dell’Irpef e provvedere così ai loro costi faraonici, alle campagne elettorali, alle elefantiache strutture nelle quali trovano da vivere alcune centinaia di migliaia di italiani, a diverso titolo fruitori e dispensatori di politica.

Il Governo Letta, con il decreto che dovrà essere convertito dal Parlamento e, dunque, dagli stessi utilizzatori finali delle risorse economiche previste dalla nuova normativa, ha inteso così mettersi la coscienza in pace, smorzare le campagne demagogiche di Renzi et similia, sottrarsi alle intemerate del Movimento Cinque Stelle e accampare per gli anni a venire – indipendentemente dall’esito del provvedimento – il merito di aver quantomeno provato a “moralizzare” in parte la vita pubblica.

Ora, a prescindere dal fatto, come copiosamente hanno rilevato molti giornali, pubblicando addirittura tabelline riassuntive, che in tutto l’Occidente lo Stato provvede in qualche modo al sostentamento dei partiti ritenuti strumenti indispensabili per lo svolgimento di una corretta ed ordinata dialettica democratica, resta il fatto che perfino la liberalità prevista dalla disposizione governativa è limitativa per chi voglia contribuire nella maniera che ritiene più idonea al fabbisogno della forza politica di appartenenza o della quale è simpatizzante.

Infatti, la fissazione del limite di 300 mila euro l’anno (200 per associazioni e società) è quanto di più illiberale si possa immaginare nella sfera privata, senza considerare che nulla è previsto in tema di erogazioni altrettanto private per ciò che riguarda la devoluzione di beni e servizi che potrebbero risultare perfino più utili ai partiti invece del mero contributo in denaro.

Per esemplificare: se un privato e/o un’associazione di privati mettessero a disposizione dei soggetti politici un sito on line, una struttura redazionale, un centro di ricerca e di studio, una casa editrice, un laboratorio di idee per quale motivo sarebbero fuorilegge (nel senso che la disposizione del governo non pare che faccia cenno a tutto questo che sarebbe un modo diverso, e forse perfino più gradito ai destinatari)?

Ma a prescindere da questa “fantasia” particolarmente costosa anche se verosimilmente utilissima in tempi in cui alla politica più che i soldi mancano le idee, resta il fatto che la proposta del governo è surreale in sé dal momento che viene calata in un contesto di generale discredito dei partiti che tali, a dire la verità, non sono più da tempo, ma piuttosto somiglianti a corti bizantine o a comitati d’affari.

Chi potrebbe verosimilmente apporre la propria firma sul rigo che autorizza la devoluzione del 2 per mille a questo o a quel soggetto ritenuto, a torto o a ragione, responsabile dei guai del Paese, della sua irrilevanza, dell’impoverimento dei singoli e della società, dell’arretramento culturale italiano, della complessiva decadenza dei nostri costumi pubblici (su quelli privati stendiamo un velo pietoso)?

Ci si provò qualche anno fa a mettere in piedi un’operazione somigliante a quella attuale per regolamentare il finanziamento ai partiti in ossequio all’esito referendario: il risultato fu disastroso per lo stesso motivo che oggi richiamiamo, vale a dire la disaffezione ed il disgusto per i partiti in quanto tali, portatori non di soluzioni ai problemi (come pure è stato in alcune stagioni della storia repubblicana), ma famelici assalitori della cosa pubblica la cui degenerazione partitocratica è ancora più grave di quando veniva diagnosticata dal grande costituzionalista Giuseppe Maranini tra la fine degli anni Quaranta e gli inizi dei Cinquanta del secolo scorso.

I privati, dunque, non contribuiranno in maniera soddisfacente, lo si può dare per scontato. Almeno fino a quando i partiti non saranno delle specchiate case nelle quali non si pretende che brillino virtù civiche difficilmente praticabile, ma che regni un po’ di decoro sì. E per ottenere questo c’è bisogno del riconoscimento giuridico degli stessi, in attuazione alla disposizione costituzionale disattesa dal 1948, che garantisca “trasparenza e democraticità”, proprio come asserito dal decreto governativo; requisiti questi che dovrebbero essere rilevati da una Commissione degli statuti dei partiti i cui rendiconti dovrebbero essere certificati da una società iscritta nell’apposito albo. Niente di nuovo sotto il sole. Possiamo produrre antiche proposte di legge di iniziativa parlamentare, presentate decenni fa da forze politiche perlopiù di opposizione, tendenti a definire la natura giuridica dei partiti e a regolamentarne di conseguenza il finanziamento da parte delle Stato.

Adesso forse è un po’ tardi a meno che le forze politiche non si autoriformino: ma se non l’hanno fatto in vent’anni perché dovrebbero riuscirci in pochi mesi!

Eppure una democrazia senza partiti non riusciamo a concepirla. Dunque, che i “veicoli per la formazione del consenso” debbano essere assistiti è indispensabile, per quanto possa sembrare contro il sentire comune appena ricordato. Ma non certo nella forma prevista dalla quale non si ricaverà neppure un piatto di minestra per il più umile degli uscieri.

Ai cittadini chiamati a contribuire non sembrerà vero vendicarsi su quella già inguardabile dichiarazione dei redditi della eccessiva, insopportabile, ingiusta ed incivile pressione fiscale sostenuta con spaventosa leggerezza dalla classe politica che se ne serve per sostenere non tanto se stessa, ma gli effetti dei propri errori. Ed essa dovrebbe essere finanziata con atti “spontanei” di liberalità? Meglio, molto meglio il contributo diretto dello Stato, che poi esce sempre dalle nostre tasche, piuttosto che avallare con una firma la legittimità di partiti che non faranno nulla di ciò che ci si aspetta da essi. È più accettabile l’onta della beffa, insomma.

Ma questo il surreale governo di Enrico Letta non l’ha ancora capito.