Matrimoni gay: esiste anche la facoltà di non decidere

di Michele Marchesiello
Pubblicato il 22 Ottobre 2014 - 05:48 OLTRE 6 MESI FA
Matrimoni gay: la facoltà di non decidere

Il primo matrimonio gay celebrato in Arizona (Usa, 17 ottobre 2014, Ap-LaPresse)

ROMA – Ci sono argomenti che sembrano fatti e sollevati apposta per suscitare contrasti e conflitti sostanzialmente irrisolvibili. Viene il sospetto che molte persone li prediligano perché consentono di dare sfogo a pregiudizi e idiosincrasie che esse sentono in pericolo e ritengono di dover porre sotto l’ala protettiva di qualche valore ‘superiore’ e incrollabile. E’ così per la questione dell’articolo 18; è così per la vicenda degli sbarchi clandestini che si susseguono sulle nostre coste; è così per l’eutanasia e la fecondazione artificiale.

Nessuno di questi argomenti è però così “divisivo” (come si usa dire oggi ) di quello che concerne i matrimoni o le unioni civili tra soggetti compresi nella categoria definita dall’acronimo LGBT: Lesbiche, Gay, Bisessuali e e Trans-sessuali*.

Il conflitto sul riconoscimento giuridico di queste situazioni “anomale” è in realtà, più che acuto, del tutto irrisolvibile, e – come per le altre questioni radicalmente “divisive” – suggerisce a chi vi sia coinvolto, o trascinato, una strategia che vorremmo definire “diversiva”, di aggiramento dell’argomento nei suoi connotati più spinosi e controversi, per ripiegare su posizioni meno drammaticamente inconciliabili. A volte la soluzione migliore è quella di abbandonare il campo per sceglierne altri più praticabili, in attesa che i tempi e i valori si prestino a una ripresa della questione, o che la questione stessa, lasciata alle spalle, diventi irrilevante.

È l’atteggiamento assunto dalla Supreme Court degli Stati Uniti che, con grande saggezza e capacità di gestione dello scenario costituzionale di quel Paese, ha deciso di non decidere sui ricorsi per proposti dai governi di alcuni Stati (Virginia, Utah, Oklahoma, Wisconsin e Indiana ) contro le sentenze delle Corti che si erano pronunziate per la incostituzionalità delle leggi di quegli stati, che vietavano il riconoscimento dei matrimoni tra gay.

Come è noto, il potere di non decidere sui casi che le vengono sottoposti è pacificamente riconosciuto alla Supreme Court che – se ritiene di non occuparsene – emette la semplice formula “cert den” (“certiorari denied”).

La facoltà di non decidere (che a un giurista di Civil Law sembra contrastare con la stessa natura della funzione del giudice) può servire a molteplici esigenze o policies della Corte: da un anomalo sovraccarico del ruolo, a uno stallo insuperabile tra le posizioni dei nove giudici, alla scelta ‘strategica’ di non coinvolgere la Corte in un conflitto aperto che sta lacerando il Paese .
Quest’ultimo sembra essere stato il caso, nella scelta operata a proposito dei cosiddetti matrimoni gay.

All’inizio della sessione autunnale della Corte, proprio quando il pubblico attendeva con giustificata ansia una pronunzia sulla costituzionalità delle leggi statali che non ammettevano il matrimonio gay (era in discussione il principio costituzionale dell’equal protection of the laws garantita dal XIV emendamento a tutti i cittadini americani), i nove giudici del supremo organo giudiziario hanno pronunziato la semplice formula: “cert den“.
Le sentenze “impugnate” davanti alla Corte sono così divenute definitive, con riferimento ai casi concreti in cui esse avevano negato la costituzionalità di una legislazione che proibisse il matrimonio tra gay, disapplicando quelle leggi.

Il risultato – per noi curioso – è che quelle leggi non sono state dichiarate apertamente contrarie alla Costituzione, ma che – per il principio del precedente – i giudici chiamati a decidere singoli casi non potranno più applicarle, liberi gli Stati di continuare a mantenerle, anche se inutilmente, in vigore. Libera, inoltre, la Corte Suprema di accordare in futuro il certiorari oggi negato e di affrontare direttamente la questione.

Soluzione saggia, elegante, aperta alla naturale evoluzione di una società, e non solo di quella statunitense.
La questione dei matrimoni gay – dando luogo a scelte , non scelte e compromessi di vario genere – investe quasi tutti i paesi del mondo occidentale (non ponendosi neppure in quelli in cui vige la legge islamica).
Abbastanza curiosamente, la controversia ha assunto toni molto più aspri negli Stati Uniti che non nei paesi latini: sembra quasi che la cultura e la religione cattolica si mostrino, al di là delle rigidità dogmatiche, più aperte a soluzioni ispirate a valori di umana comprensione e non esclusione dei “diversi”.
Così il Messico ha emanato leggi federali anti-discriminazione, riconoscendo le unioni civili di persone dello stesso sesso.

Sulla stessa linea, l’Ecuador si è dotato recentemente di una nuova Costituzione che prevede la possibilità di unioni di tipo familiare
tra gay, lesbiche, trans- e bi-sessuali.

Anche la Corte Suprema del Brasile ha stabilito che le unioni omosessuali sono equivalenti alle “stabili unioni” eterosessuali, superando l’ostacolo apparentemente posto da quella Costituzione che fonda la famiglia sulla “stabile unione” di un uomo e di una donna.

E da noi?
Da noi accade che, mentre la Chiesa stessa si interroga e tormenta sui temi della sessualità, la questione è diventata l’ennesimo strumento di una lotta che si stenta ormai a definire politica. Più dei valori in campo (egualmente importanti e degni di essere difesi) e della loro valenza costituzionale, conta la capacità di ottenere consensi dall’uno o dall’altra delle parti in contesa, o da entrambe a seconda delle occasioni e delle circostanze. Accade così che un ministro in affanno muova i vertici dell’ apparato burocratico statale, costringendoli a entrare in conflitto con i sindaci che – in assenza di una legislazione ad hoc – cercano a loro modo di venire incontro alle più elementari esigenze pratiche e giuridiche poste dalle “nuove” forme di convivenza.

Invece di ricorrere alla Costituzione, si preferisce muovere i Prefetti. Il Parlamento assiste passivo, salvo momentanei accessi di furore partigiano, subito spenti. Le coppie vanno all’estero per ottenere quel riconoscimento che – anche al di fuori della sacra istituzione matrimoniale – è loro negato nel nostro Paese.
Lo Stato si fa occhiuto e imbraccia la circolare ministeriale. I sindaci si apprestano a una resistenza tanto fiera quanto – si sospetta – di facciata.
Che occorra anche in questo caso far venire dei giudici da Berlino?

L’acronimo LGBT viene usato per riferirsi complessivamente  al mondo di quanti , uomini o donne,  si vogliono sottrarre ai vincoli  posti dalla  tradizionale sessualità ‘etero’. Considerata la varietà delle alternative possibili, la sigla ha subito numerose modifiche: LGBU (dove U sta per ‘unsure’), LGBTA (A per ‘asexual’), LGBTI (I per  ‘intersexual’) e così via, secondo i gusti e le pretese.

**Il writ of certiorari (certiorari) è il modo usuale con cui la Supreme Court – su istanza di una parte –  riesamina un caso deciso dalle corti inferiori per valutarne la correttezza sotto il profilo costituzionale. La Corte ha una discrezionalità assoluta nello scegliere i casi di cui occuparsi. Si calcola che ogni anno siano circa 5000 le richieste del writ. Di queste, in media, solo il 5% viene accolto