Perché il bicameralismo perfetto e la riforma Renzi del Senato è pericolosa?

di Michele Marchesiello
Pubblicato il 9 Aprile 2014 - 12:51 OLTRE 6 MESI FA

Perché il bicameralismo perfetto e la riforma Renzi del Senato è pericolosa?ROMA – Perché i Costituenti vollero il bicameralismo, e perché lo vollero “perfetto”? Come in molte altre parti “delicate” della nostra Carta Fondamentale, i Costituenti vollero trovare un ragionevole equilibrio tra visioni e “miti” contrastanti: in particolare tra quello “roussoviano” della sovranità popolare come unica fonte della legge e quello “romantico” della rappresentanza corporativa degli interessi . Il primo difeso dalla sinistra, il secondo propugnato dalla componente “conservatrice”.

In base al primo mito, non poteva esservi che una sola camera, secondo il detto di Saint Simon, per cui “la maggioranza deve imporre le sue leggi” e “la verità è quella che esce dalla maggioranza, quindi dall’unica camera ( o dalle due camere ,purchè provengano dalla stessa sorgente)”.

In base al secondo mito, definito da Luigi Einaudi come un ‘ ritorno romantico al medioevo’, l’individuo si realizza compiutamente solo nel ceto o nel gruppo professionale cui affida la difesa dei propri interessi.

Sarebbe stato quindi ragionevole – secondo questo punto di vista – che nella Camera la fonte della rappresentanza fosse la sovranità popolare di cui ognuno è detentore parcellare, mentre nel Senato la rappresentanza dovesse essere l’espressione di quell’appartenenza “sociale”, determinata in pratica dal lavoro e dalla partecipazione alla produzione.

Superata la vecchia e screditata visione ‘romantica’ o ‘corporativa’, la rappresentanza degli interessi in una seconda camera trovava una giustificazione nel fatto che ogni persona ‘attiva’ vive in una comunità di lavoro: agricoltori, operai, proprietari, industriali, intellettuali, artisti o commercianti.

Perché – si chiedeva dai costituenti più avvertiti e meno sensibili ai “miti” – non dare modo a questi interessi di essere rappresentati nel Senato? Alla rappresentanza “generica” dell’individuo in quanto tale, perché non affiancare quella dell’individuo lavoratore o “produttore” e alla sostanziale incompetenza dei deputati (causa non ultima della funesta pratica della decretazione d’urgenza) perché non affiancare in funzione di garanzia le competenze specifiche rappresentate nel Senato?

La domanda aveva tanto più senso in quanto – anche da parte liberale – ci si rendeva conto che in una società moderna i compiti dello Stato divenivano sempre più complessi e tali da richiedere anche nel legislatore conoscenze frutto di saperi e di esperienze specialistici. Si auspicava quindi non una semplice e “perfetta” duplicazione delle Camere, ma un articolarsi della rappresentanza in generale (universale) e specialistica (legata alla partecipazione al mondo del lavoro e della produzione).

Alle tesi che, in questo senso, avrebbero voluto introdurre nella Costituzione il bicameralismo, si contrapponevano nella sottocommissione per la Costituzione quelle, intransigenti, dei componenti di sinistra, fermi nel mantenere il principio della sovranità popolare, che essi vedevano messo in pericolo dalla nuova rappresentanza degli interessi. Da un lato, premeva il ricordo recente dell’esperienza corporativa fascista; dall’altro si sottolineavano i rischi di un suffragio “diseguale”: come equiparare il “peso” di poche migliaia di industriali a quello di milioni di operai? E come fare salvo il principio del suffragio “universale”?

La soluzione, o meglio il compromesso, furono trovati con la formula del ‘bicameralismo perfetto’, la cui perfezione è oggi al centro di una proposta di riforma che – in sostanza – vorrebbe eliminare il Senato riducendolo a un doppione largamente cerimoniale, basato non sull’elezione ma sulla nomina di rappresentanze territoriali che hanno ampiamente dimostrato i loro limiti .

La già dubbia “perfezione” del bicameralismo voluto dai Costituenti è dunque costretta a una duplice prova: quella della sua efficienza (rallenterebbe in misura non più tollerabile l’iter legislativo, giustificando il ricorso smodato alla decretazione d’urgenza) e quella della garanzia costituita dal “doppio esame” dei disegni di legge da parte del Parlamento.

Sotto il primo aspetto, siamo convinti che l’inefficienza in quanto tale non giustifichi di per sé l’eliminazione (o la riduzione a mero fantasma cerimoniale) di un organismo quale il Senato, che si volle configurato, per le ragioni dette sopra, come espressione della sovranità popolare e quindi non solo come strumento di maggiore efficienza legislativa. L’eliminazione dovrebbe comunque essere preceduta da un esame attento delle cause dell’inefficienza attuale e dei rimedi che potrebbero esserle posti (riduzione del numero dei parlamentari, in primis, ma anche opportuna accelerazione dei meccanismi di passaggio dei disegni di legge (la navetta) tra le due camere.

Sotto il secondo aspetto, sembra giustificata la preoccupazione dei “professori” per il grave squilibrio che l’eliminazione del Senato verrebbe a produrre nel sempre difficile bilanciamento tra poteri ‘classici’ dello Stato, in particolare tra l’ esecutivo e il legislativo (quello giudiziario rimane sempre – secondo la famosa definizione di Alexander Hamilton – “il meno pericoloso tra i tre poteri”).

La configurazione in senso sostanzialmente maggioritario della Camera dei deputati, quale nascerebbe dalla nuova legge elettorale (non a caso destinata a procedere ‘di conserva’ col ridimensionamento del Senato ), determinerebbe infatti un grave squilibrio a tutto vantaggio di un esecutivo attivista ed efficientista, poco disposto a lasciare significativi spazi di azione agli altri poteri dello Stato.

Rimarrebbe infatti, a “contenere” l’attivismo del governo, una camera “generalista”, poco incline e poco attrezzata a svolgere il ruolo che l’essere espressione ormai solitaria e residuale della sovranità popolare le dovrebbe attribuire.