Favalli, avvocato: “Articolo 18: frena gli investimenti. Ecco perché”

La guerra per l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori è giustificata o no? Davvero l’articolo 18 è da una parte l’unica difesa per i lavoratori e dall’altra il Nemico Pubblico Numero 1 dell’imprenditoria italiana?

Cerchiamo una risposta da Giacinto Favalli, da più di 30 anni avvocato giuslavorista a Milano e senior partner cofondatore dello studio legale Trifirò, che oggi allinea 50 avvocati e nel 2008 ha vinto il premio all’eccellenza professionale TopLegal Award. Per il think tank Trifirò sono passate quasi tutte le cause con le principali sentenze nel campo del lavoro, tant’è che il nume tutelare Salvatore Trifirò ama ricordare: “Tutte le più grosse controversie, dove si sono formati i principi del diritto – quelli che costituiscono i pilastri del Diritto del Lavoro vivente – ci hanno visti protagonisti”.

Colonna dello studio Trifirò, Favalli ha avuto un ruolo anche in casi assai scottanti recenti, come per esempio: 1) – la sentenza del Tribunale di Torino nella causa promossa dalla Fiom contro Fiat in relazione alle vicende dello stabilimento di Pomigliano; 2) – numerosi decreti ex articolo 28 sempre dello Statuto dei Lavoratori che, in varie parti d’Italia, hanno respinto i ricorsi per asserita antisindacalità presentati dalla Fiom e incentrati sulla firma separata del contratto collettivo dei metalmeccanici 2009.

La prima domanda all’avvocato Favalli è : Davvero l’articolo 18 dello statuto dei lavoratori è diventato un cappio al collo per gli imprenditori e per le assunzioni in generale? E dissuade gli imprenditori del resto del mondo dall’investire in Italia?

“Per quel che mi riguarda posso solo dire che, nei miei rapporti con le imprese, ho sempre ricevuto segnalazioni di forte critica alla suddetta norma e ciò non solo dalle aziende straniere, ma anche da quelle italiane. Con la differenza che le nostre aziende sono, diciamo “culturalmente/storicamente”, più disposte a capire, mentre quelle straniere, o per effettiva diversità di mentalità e sistemi giuridici o, a volte, per una sorta di “arroganza” intellettuale nei nostri confronti ( non dimentichiamoci che noi siamo sempre considerati il paese della mafia e del bunga bunga ), fanno molta più fatica.

“Questa fatica non deriva però da aspetti meramente storico-culturali o politici, ma soprattutto da considerazioni di carattere economico, comuni alle aziende italiane e straniere. Infatti, l’articolo 18, da valutare in un contesto più ampio, nel quale giocano un importante ruolo anche una giurisprudenza non chiara e mutevole e i tempi lunghi della giustizia, non consente alle aziende di fare conti esatti circa i rischi connessi alla realizzazione delle loro operazioni. Non consente per esempio di ripondere a domande tipo: se le cose vanno male e sono costretto a licenziare, posso licenziare, non posso, quanto mi costa?  

“Tenga conto che una causa in tribunale, nelle sue varie fasi, può durare anni e se l’azienda perde deve pagare tutte le retribuzioni e i contributi dal licenziamento alla sentenza negativa. In aggiunta a ciò deve poi reintegrare il dipendente, il che vuol dire trovargli un posto, in un contesto organizzativo di solito mutato.

“Mi sembra, quindi, che vi siano, da punto di vista economico-organizzativo, validi motivi per procedere ad una modifica dell’articolo 18, finalizzata a creare una maggiore flessibilità in uscita, non dico simile a quella amplissima dei paesi anglosassoni, ma almeno in linea con la normativa dei principali paesi europei.

Quali le parti più “dannose” dell’articolo 18 per i datori di lavoro italiani e per quelli stranieri? Quali invece le parti che è bene restino come sono?

“Non vi sono parti buone o cattive dell’art. 18. E’ l’impianto della norma che va modificato perché, tenuto conto anche delle altre disfunzioni del sistema giudiziario di cui abbiamo parlato, l’impatto negativo è sia sul piano economico ( gli arretrati) che su quello organizzativo conseguente alla reintegrazione“.

L’attacco all’articolo 18 non si iscrive nel progressivo degrado della figura del lavoratore, da figura professionale a pura e semplice forza lavoro? Di questo passo non si degrada anche il concetto di cittadinanza? La forza lavoro infatti è una merce, non una figura professionale che in quanto tale è anche una figura civile, con tanto di doveri e diritti.

“Non mi sembra che una modificazione dell’art. 18 Stat. Lav. incida sulla dignità del lavoratore come tale: dopo tutto il rapporto di lavoro nasce da un contratto che, come tutti i contratti , può essere risolto. Oltretutto, in questa prospettiva,la riforma in fase di approvazione mi sembra che abbia avuto ben presenti tali aspetti, perché, non a caso, il licenziamento discriminatorio e quello disciplinare prevedono ancora la reintegrazione. Inoltre, la tutela della dignità del lavoratore può trovare un sostegno nelle misure poste in essere dallo Stato nei confronti dei soggetti licenziati. In altri termini, a mio parere, il tema della dignità è principalmente un tema sociale, non contrattuale”.

Nella conquista dell’articolo 18 e dello Statuto dei Lavoratori è stato decisivo il progressivo allargamento dei diritti civili in Italia, grazie all’ondata dei vari movimenti di massa partiti con il movimento studentesco del ’68 e “l’autunno caldo” del ’69, o la presenza del più grande partito comunista d’Occidente che aveva alle spalle l’Unione Sovietica?

“Non sono in grado di valutare quale, tra le causali da lei indicate, abbia, dal punto di vista storico, determinato l’approvazione della norma in esame. Penso però più ai partiti comunista e socialista dell’epoca, piuttosto che ai movimenti studenteschi o dell’autonomia”.

Negli anni del boom sono stati scaricati sui datori di lavoro pesi impropri, aumentando non di poco il costo del lavoro, ma sono state concesse loro una serie di provvidenze, facilitazioni e aiuti pubblici. In cambio di cosa? In cambio del doversi infine ridurre ad eliminare l’articolo 18?

“Queste ultime considerazioni ci consentono di passare all’esame degli altri temi. La cassa integrazione e direi anche le varie forme di prepensionamento hanno avuto in questi anni il merito di aver attenuato il problema sociale di esubero di personale nelle aziende. Mi sembra che quando si dice che le aziende hanno beneficiato della cassa integrazione ci si dimentica di considerare che i soldi della cassa sono andati ai lavoratori, che le aziende hanno pagato contributi per finanziare la cassa integrazione e che, in tal modo, si sono evitati licenziamenti, con grande beneficio per il controllo della tensione sociale nel paese”.

Non sarebbe stato meglio che lo Stato anziché essere munto in vari modi dalle imprese e dai sindacati, compresa la cassa integrazione straordinariamente lunga per quelli che di fatto erano licenziandi o licenziati, investisse nella possibilità di fornire l’aggiornamento professionale necessario per trovare rapidamente un altro lavoro accettabile a chi era stato messo fuori dalla “sua” azienda?

“Certo, è mancata tutta la parte relativa alla riqualificazione e alla ricollocazione dei lavoratori, ma anche questo è un problema principalmente dello Stato e non delle imprese. E in tutto ciò bisogna avere il coraggio di ammettere che anche il sindacato ha fatto bene poco. Così come hanno fatto ben poco Stato, partiti e sindacati per favorire un corretto orientamento dei giovani nella prospettiva della ricerca di un posto di lavoro, non ponendo limiti all’accesso a corsi di studio, soprattutto quelli umanistici, privi di concreti sbocchi professionali e non favorendone, invece, altri, non solo a livello di laurea o diploma, ma anche di mera formazione professionale”.

Siamo arrivati al punto che abbiamo la pressione fiscale al 55%, tra le più alte d’Europa, senza avere in cambio servizi pubblici adeguati, compreso quello dell’aggiornamento professionale per garantire lavoro a chi deve cercarsene un altro. Secondo lei, quanto può durare questa situazione senza che essa porti a esiti preoccupanti anche sul piano della coesione sociale? Ed esiste un calcolo anche solo approssimativo di quanti licenziamenti ci sarebbero nel caso l’articolo 18 venga abolito del tutto o modificato secondo i desiderata degli industriali e del governo Monti?

“La tensione sociale la si contiene anche pensando “in grande”, vale a dire al futuro, alle nuove generazioni e non cavalcando la tigre della tutela di vecchi privilegi di ( una parte di) coloro che sono già occupati. A proposito di calcoli, si è mai pensato a quanti posti di lavoro le imprese italiane hanno creato all’estero spinti anche dalle motivazioni di cui ho detto sopra e che invece potrebbero essere qui in Italia?”

Il presidente Giorgio Napolitano ha dichiarato che le “modifiche all’articolo 18 non provocheranno nessuna ondata di licenziamenti”. In assenza di previsioni certe, fondate cioè su numeri, come fa il presidente della Repubblica a dire che “non ci sarà una valanga di licenziamenti”?

“Il Presidente è, come sempre, un saggio: potrebbe esserci un aumento dei licenziamenti, ma solo temporaneo. La mia personale esperienza ( sono 34 anni di attività come giuslavorista ) è che, salvo rare eccezioni, gli imprenditori licenziano solo quando è strettamente necessario”.

Esiste un calcolo o almeno una valutazione di massima su quanti posti di lavoro in più verrebbero creati con le modifiche all’articolo 18 che il governo intende fare?

“Non sono a conoscenza di studi che abbiano valutato le incidenze negative e positive dell’art. 18 e della sua eventuale modificazione”.

Se non si sa quanti posti di lavoro verrebbero creati perché il governo e gli industriali insistono a dire che si tratta di modifiche necessarie perché utili? Utili a chi?

“Utili a tutti. Perché gli effetti di una modifica in tale direzione sarebbero certamente positivi; tale riforma contribuirebbe infatti a rendere meno rischiosi gli investimenti, italiani e stranieri, o quanto meno, più facilmente valutabili nelle loro eventuali conseguenze negative ( le aziende, a volte, compiono delle scelte che sanno essere rischiose, ma per loro è importante sapere quali potrebbero essere gli eventuali costi economici, cosa che invece è più difficile fare con l’attuale formulazione dell’art. 18). Del resto, è un dato di fatto che, per esempio, l’Italia sia uno dei Paesi europei che attrae meno investimenti stranieri.

“E’ chiaro che ciò non dipende solo dall’art. 18. Vi sono, infatti, ragioni di carattere economico, finanziario, logistico e di mercato. E per quel che riguarda gli aspetti , in senso lato, giuridici, pensiamo, a titolo esemplificativo, al nostro vischioso apparato burocratico per la concessione di autorizzazioni. Ma certo anche l’art. 18 gioca la sua parte. Diciamola così: se a parità di condizioni economiche, finanziarie, logistiche e di mercato si deve fare un investimento si privilegiano le nazioni dove c’è maggior flessibilità in entrata ed in uscita”.

 

In effetti è stato sorprendente  sentire lamentarsene anche esponenti della diplomazia e dell’economia cinese, che investono non poco in Italia, ma vorrebbero poter investire di più “con meno lacci”.

“Questo è un punto centrale, estremamente attuale. Proprio nell’attuale viaggio in Oriente il nostro capo di governo Monti s’è sentito dire dal presidente cinese “in Italia vogliamo investire di più”. Bene! La Cina è un gigante, facciamo in modo che investa davvero di più, anche perché non investirebbe certo poco.

“Questo aspetto per così dire cinese permette di dire che vi è anche un altro aspetto che non deve essere sottovalutato ( anche se purtroppo lo è, perché i nostri politici e sindacalisti sono molto “provinciali”) ed è quello dell’immagine all’estero. Io seguo molto, per mio piacere culturale, la stampa britannica e devo dire che, per esempio, dopo l’insediamento di Monti i giudizi sulla nostra credibilità sono migliorati in modo sorprendente. Ritengo, quindi, che anche una modificazione dell’articolo 18 in una direzione, che avvicinerebbe la nostra normativa a quella delle principali nazioni europee, contribuirebbe a favorire tale processo, che, ripeto, ha effetti positivi anche sui potenziali investimenti”.

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