Banche strozzate dall’Europa: si rischia un credit crunch all’italiana

Pubblicato il 12 Gennaio 2012 - 08:00 OLTRE 6 MESI FA

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ROMA – Gli ingenti prestiti a tre anni e a basso tasso di interesse (un per cento) ottenuti dalle banche italiane (ed europee) dalla Bce nello scorso dicembre sono apparsi a molti la panacea per i gravi problemi delle aziende di credito e dei prestiti alle imprese e alle famiglie. Dall’Eurotower sono giunti in Italia circa 210 miliardi, oltre la metà dei quali alle suddette condizioni agevolatissime. Inoltre un’altra ondata di finanziamenti è attesa per l’inizio di marzo. Con questa massa di quattrini, si pensava, le banche potranno evitare il credit crunch, particolarmente nefasto per un’economia che già si sta avviando sulla strada della recessione, e magari potranno anche fare massicci acquisti di titoli del debito pubblico, contribuendo ad alleviare il problema del collocamento di Bot e Btp e ad abbattere lo spread. Il tutto guadagnandoci anche bene: con soldi ottenuti all’un per cento si sarebbero potuti acquistare titoli pubblici che offronto fra i quattro e il sette per cento.

Per ora, anche se sono passate poche settimane dalla pioggia di denaro caduta sugli istituti di credito da Francoforte, quei favorevoli scenari non si sono avverati neanche un po’. Tant’è che da più parti si è levato un coro di critiche verso le banche, che metterebbero “le mani nella tasche degli italiani” (Fabrizio Cicchitto, capogruppo Pdl alla Camera), mentre il vice di Cicchitto, Maurizio Lupi, ha addirittura preparato un’interrogazione per chiedere al Tesoro e alla Banca d’Italia “di intervenire ugentemente sulle banche e verificare che fine hanno fatto i miliardi presi all’un per cento dalla Bce per dare credito agevolato (sic!) a imprese e famiglie”. Altri parlamentari del Pdl si sono addirittura levati a protestare perché a loro avviso le aziende di credito con i “soldi Bce” avrebbero acquistato titoli di Stato anziché soddisfare le esigenze delle imprese: peccato che di questi massicci acquisti di Btp e simili non vi sia traccia alcuna.

Se a sferrare quest’offensiva al sistema bancario è soprattutto il partito di Silvio Berlusconi, mugugni e critiche vengono anche dal centro e dal centrosinistra, sempre con il medesimo leitmotiv: le banche ora sono piene di soldi ottenuti a basso prezzo ma non vogliono aiutare le imprese. Ma le cose stanno proprio così? La Replica dell’Abi (Associazione bancaria italiana) alle critiche è apparsa, per la verità, debole e poco chiara: le banche soffrono la crisi come il resto dell’economia, è stato detto, e soprattutto “le nuove regole le penalizzano”; inoltre, i finanziamenti alle imprese sono cresciuti più che nella media dell’eurozona; infine, è passato ancora troppo poco tempo dai provvedimenti della Bce perché si potessero produrre effetti sensibili sul credito alle imprese.

Cerchiamo di rendere un po’ più esplicite le cause fondamentali del comportamento “attendista” delle banche che finora hanno preferito depositare la loro liquidità a brevissimo termine (overnight) presso la stessa Bce, accontentandosi di un misero 0,25 per cento di interesse. I finanziamenti della Bce sono stati fondamentali per attenuare i problemi di liquidità delle banche. In particolare in questo primo trimestre dell’anno vengono a scadenza circa 230 miliardi di bond bancari (molti altri ancora nei mesi successivi) e quasi altrettanti di collaterali utilizzati come garanzia. Nello scenario precedente al finanziamento concesso dall’Eurotower molte banche temevano di non riuscire a collocare i loro bond in sostituzione di quelli giunti a scadenza: ora possono tirare un sospiro di sollievo.

Quanto all’acquisto di titoli del debito pubblico italiano, le banche procedono con i piedi di piombo. Le “nuove regole” prevedono infatti che i titoli nei bilanci bancari siano valutati ai valori di mercato: le aziende di credito si sono quidi già trovate a far fronte a una svalutazione del loro capitale dovuta alla perdita di valore dei Btp posseduti (a causa dell’aumento degli spread i vecchi titoli hanno perso fino al 20 per cento) e non hanno quindi il fegato (o l’incoscienza) per incamerarne molti altri (a parte una parziale sostituzione di quelli in scadenza). Qui ci avviciniamo alla principale motivazione che induce le banche a lesinare il credito malgrado le maggiori disponibilità liquide.

La concessione di prestiti, infatti, non dipende né solo né soprattutto dalla liquidità: occorre anche che si osservino dei precisi rapporti tra il capitale a disposizione e la massa degli impieghi. Secondo gli accordi di Basilea, il principale di questi parametri, il “Core Tier 1”, va portato entro giugno da una soglia minima del cinque per cento al nove per cento, al fine di migliorare le garanzie per i risparmiatori e allontanare i rischi di default bancari. Questo significa per molti istituti un ingentissimo sforzo di ripatrimonializzazione, quantificato dall’Eba (l’autorità europea di vigilanza sulle banche), per le sole maggiori aziende di credito italiane, in una quindicina di miliardi. Stiamo vivendo proprio in questi giorni le vicissitudini di Unicredit, alle prese con un aumento di capitale di 7,5 miliardi che sta provocando fortissimi scossoni alla quotazione del titolo in Borsa e che, secondo alcuni osservatori, potrebbe addirittura sfociare nel passaggio di mano del controllo di una delle due maggiori banche italiane.

Per allargare il credito a imprese e famiglie non solo va risolto il problema della ripatrimonializzazione ma debbono anche crearsi margini di capitale proprio tali da consentire l’aumento degli impieghi. Per buona parte delle banche italiane, e comunque per tutte le maggiori, siamo lontani da questo traguardo. Cicchitto & c. possono lanciare i loro strali contro le banche tirchie o miopi, oltretutto parlar male delle aziende di credito è uno sport molto popolare e spesso a ragione, ma così non sposteranno una lira in più di credito verso le imprese e le famiglie. Più efficace sarebbe invece un’azione “diplomatica” nei confronti dell’Eba, affinché vengano rivisti i criteri di valutazione dei titoli del debito sovrano detenuti in bilancio, nonché, al limite, una rinegoziazione delle scadenze e dei parametri concordati a Basilea.

E’ stato fra l’altro notato che le principali banche spagnole, ad esempio, debbono fare operazioni di ripatrimonializzazione per un importo quasi doppio di quelle richieste alle maggiori banche italiane: a differenza delle nostre, però, le aziende di credito iberiche dispongono di molte azioni privilegiate convertibili in ordinarie o di bond convertibili, di modo che non debbono ricorrere ai mercati in questi tempi bui per richiedere denaro fresco. Le autorità spagnole, inoltre, sembra abbiano rassicurato le loro banche: non preoccupatevi troppo dei diktat dell’Eba, la Banca centrale spagnola è pronta a intervenire in vostro soccorso. Al contrario, non sembra che da parte italiana vi sia un atteggiamento analogo, fors’anche perché a presiedere l’European Banking Authority vi è un italiano, Andrea Enria, proveniente dalla Banca d’Italia. Difficile dargli contro. Fra pochi giorni comunque, il 17 gennaio, il governatore di Bankitalia, Ignazio Visco, ha convocato a Palazzo Koch i top manager delle più grandi banche. Al primo posto dell’ordine del giorno, a quanto pare, vi sono proprio le richieste di rafforzamento del patrimonio avanzate dall’Eba. Chi vivrà vedrà.