La ripresa ha il mal d’America

di Paolo Forcellini
Pubblicato il 27 Giugno 2011 - 20:26 OLTRE 6 MESI FA

ROMA – Nella seconda metà degli anni ‘70 fu coniato in Italia il termine “ripresina” per dire che la crisi economica forse era alle spalle ma la fase ascendente del ciclo era appena percettibile, debole, timida, precaria. Oggi quella parola ben si adatta alla congiuntura internazionale, dopo la forte recessione scoppiata fra 2007 e 2008. La recovery odierna è così modesta e piena di contraddizioni che i più pessimisti, o i più menagrami, negano persino che ve ne sia anche solo un venticello, mentre invece il mondo sviluppato, e gli Stati Uniti in primis, starebbero speditamente avviandosi verso una nuova recessione, verso la realizzazione di quel “double dip” che toglie i sonni a parecchi economisti. Quest’ultima paura sembra diffusa soprattutto al di là dell’Atlantico. Se temere un “doppio tuffo” nella crisi appare un tantino eccessivo, certo è che l’economia più potente del pianeta e il sovrano-dollaro, 24 mesi dopo la fine ufficiale della recessione, non appaiono davvero in ottima forma. E siccome, con qualche sfasatura temporale, il trend economico americano si è sempre ripercosso su quello dalla nostra parte dell’oceano, merita dare un’occhiata più da vicino a cosa sta accadendo nel paese più ricco del mondo.

Uno dei dati più anomali dell’attuale congiuntura Usa è quello che riguarda il tasso di disoccupazione. Oggi è al 9,1 per cento, praticamente lo stesso (9,5) di due anni fa, quando è finita la caduta recessiva. Il dato è assolutamente sorprendente se si pensa che questa persistenza di un esercito di disoccupati si manifesta dopo un lungo periodo di tassi d’interesse rasoterra e di abbondanti iniezioni di denaro pubblico per stimolare l’economia: le due fasi della cosiddetta “quantitative easing” (la seconda giunge in questi giorni al termine) hanno triplicato gli investimenti della Federal Reserve tesi ad alleggerire i bilanci bancari oberati di mutui incagliati e ad aumentare la liquidità a disposizione di tutti gli operatori (per qualcuno fin troppo, tanto da aver prodotto pressioni inflazionistiche).

Ed è sorprendente, quest’alta disoccupazione, anche rispetto all’andamento del mercato del lavoro dopo le maggiori crisi economiche del recente passato. Ha notato ad esempio Allen Sinai, economista americano molto influente, che nei decenni ’50-’80 il primo anno dopo la fine della crisi portava crescite del Pil intorno al sette per cento. Inoltre l’occupazione, sei mesi dopo la svolta congiunturale, cominciava ad aumentare al ritmo di 100 mila nuovi posti di lavoro al mese. Poi le cose sono cambiate: nel 1991 e nel 2001 sono terminate due recessioni ma perché vi fosse un rilancio consistente dell’occupazione sono dovuti passare, rispettivamente, 13 e 27 mesi. Oggi, come si è detto, ne sono trascorsi 24 e l’encefalogramma dei posti di lavoro è piatto mentre si registra un’inflazione elevata (quattro per cento) relativamente a un’economia che certo non si può dire surriscaldata. Negli Stati Uniti, infatti, anche la crescita del Pil al termine della più recente fase negativa del ciclo sta deludendo chi era abituato a ben altre performances: tra il 2,5 e il 3 per cento nei primi due anni di ripresa, oltretutto con una tendenza al calo. A quest’ultimo proposito, va notato che le previsioni per i prossimi 12-24 mesi mostrano segnalano concordemente risultati modesti sui terreni del Pil, dell’occupazione, dei consumi. Una prospettiva decisamente sconfortante per Barack Obama che alla fine dell’anno prossimo si giocherà la carta del suo secondo mandato.