Articolo 18 nella palude dei 18 mesi. Nuove leggi sul lavoro a fine 2015

Articolo 18 nella palude dei 18 mesi. Nuove leggi sul lavoro a fine 2015
Articolo 18 nella palude dei 18 mesi. Nuove leggi sul lavoro a fine 2015

ROMA – L’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, cioè per dirla in breve la quasi impossibilità e/o l’estrema difficoltà di licenziare o di essere licenziato ricevendo nel caso solo un indennizzo in denaro, vale di fatto per neanche il 20 per cento di coloro che trovano in Italia un posto di lavoro fisso. Tanti sono stati nel 2012/2013 gli assunti con contratto a tempo indeterminato. Ma lo stesso articolo vale anche e soprattutto per i lavoratori assunti a tempo indeterminato negli anni e decenni passati. Non vale per tutti coloro che lavorano a tempo o in maniera autonoma o in piccole e piccolissime aziende. Vale per chi è lavoratore dipendente in aziende medie o grandi. A grandissime linee l’articolo 18 vale per la metà dei lavoratori italiani.

Se ne discute da decenni. Per alcuni è presidio e garanzia: impedisce ai datori di lavoro di licenziare a piacimento, salva i posti di lavoro. Per altri sposa a vita lavoratore a posto di lavoro, anche quando il posto di lavoro è un cadavere il legame rimane e il lavoratore si trasforma in assistito. Per alcuni è fonte e culla di equità e diritti. Per altri è diritto molto poco equo visto che la metà della popolazione lavorativa ne è esclusa. Per alcuni è una cura contro la disoccupazione che verrebbe incrementata da ondate di licenziamenti se non ci fosse. Per altri è una gabbia, una museruola che sconsiglia il datore di lavoro ad assumere, visto che l’articolo 18 protegge e blinda anche i posti di lavoro improduttivi e rende di fatto impossibili o costosissimi i cambi di produzione.

Corollario, l’articolo 18 in precisi casi impone il reintegro in caso licenziamento. Secondo alcuni questa è l’unica giustizia possibile. Secondo altri questa è stortura che toglie al lavoratore licenziato la voglia e la convenienza di riqualificazione professionale, magari assistita dallo Stato e di ricerca di altra e diversa occupazione.

Corollario ancora più grande del primo: l’articolo 18 è una parte del tutto, la più facile di cui discutere e su cui litigare. Il tutto è l’intera legislazione italiana sul lavoro, fatta e assemblata per proteggere e difendere l’occupazione che c’è e non pensata e inadatta a favorire riconversioni industriali e nuova e diversa occupazione. Va avanti da anni: flessibilità e cioè più e diversi posti di lavoro in una vita e quindi leggi che lo consentano e risorse pubbliche e privata disponibilità a entrare e uscire da posti di lavoro con diverse competenze oppure norme e soldi a sostenere il mercato del lavoro così com’è, aspettando che pian piano quelli che sono fuori, i precari, acquisiscano per graduatoria e anzianità i contratti e i diritti di quelli che sono dentro.

Va vanti da anni, molti anni e, dovesse andare alla grande e alla meglio, andrà avanti ancora per diciotto mesi. Ed è questo il terzo corollario, quello della impossibilità italiana a non andare lenti, lentissimi, quasi fermi.

Qualunque cosa si pensi dell’articolo 18, dello Statuto dei lavoratori, del contratto unico a tempo indeterminato a garanzie crescenti, se state con la Camusso o con Ichino, se non ne capite niente ma per istinto state a destra o a sinistra con la Cgil o a sinistra con Renzi che proprio non è la stessa cosa, se state con Grillo o con la Lega, se vorreste licenziare tutti sempre o nessuno mai…Se, se…qualunque cosa siate o pensate, state sereni: in Italia sulle leggi sul lavoro se si va di corsa non succede nulla per un anno e mezzo.

“La previsione è quella di far approvare la legge delega entro dicembre. Poi il governo dovrà disporre i decreti delegati, superando il vaglio di conformità del parlamento. Infine ci vorranno i famigerati provvedimenti attuativi. Con questa scaletta saremo fortunati se la riforma entrerà in vigore tra un anno e mezzo”. Riporto le parole chiare e inequivocabili e incontestabili di Maurizio Ferrera sul Corriere della Sera.

Tra un anno e mezzo, fine 2015. Quando si saranno esaurite le battaglie parlamentari e le sceneggiate in Parlamento. Quando si saranno svolte manifestazioni e mobilitazioni di piazza. Quando Berlusconi avrà offerto pelosa mano d’aiuto a Renzi in materia. Quando il Pd si sarà dilaniato e Bersani e Fassina e Damiano e tanti altri avranno maledetto Renzi. Quando sarà stata sottoposta a tensione la coesistenza stra il Pdr (il partito di Renzi) e il Pd dentro lo stesso partito. Quando Vendola avrà gridato alla dittatura. Quando forse ci sarà stata una marcia dei quarantamila o centomila o forse più giovani precari contro i sindacati. Quando i sindacati avranno proclamato scioperi. Quando, quando, quando…

Quando a fine 2015 noi italiani avremo deciso in un modo o nell’altro sulle leggi sul lavoro saranno quattro anni e mezzo da quando il resto del mondo ci aveva chiesto di decidere qualcosa sul come favorire anche tramite la legislazione sul lavoro la produzione di maggior ricchezza in modo da essere meno pericolosi in quanto debitori seriali. Quattro anni e mezzo, il tempo perché i mercati (cattivi e maligni si sa) perdano la pazienza e la speranza. Il tempo perché in Europa e nel pianeta si convincano che il nostro gioco preferito è rimandare e perdere tempo e decidere mai. Il tempo più che sufficiente per chiudere altre aziende e non aprirne nessuna. Il tempo, se hai intorno ai sessanta anni, di cercare di strappare una pensione in saltando sull’ultimo vagone dell’ultimo treno, magari con un biglietto di favore. Oppure se di anni ne hai intorno ai venti il tempo per essertene già andato dal paese palude e dalle sue palafitte.

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