Napolitano rompa privilegio medievale per lui, Camera, Senato, Consulta

di Salvatore Sfrecola
Pubblicato il 11 Febbraio 2013 - 10:11 OLTRE 6 MESI FA
presidente della repubblica

Giorgio Napolitano

Se il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, uno dei pochi punti di riferimento rimasti agli italiani in queste ore di crisi e confusione, decidesse di rinunciare al velo che protegge i suoi conti dal controllo dello Stato di cui è al vertice, farebbe una mossa importante per ridare fiducia ai milioni di cittadini tartassati da un fisco sempre più invasivo e invadente.

Invece, per una decisione della Corte costituzionale di 30 anni fa, Presidenza della Repubblica, Camera e Senato e la stessa Corte costituzionale non devono rendere conto a nessuno di come spendono le somme, sempre più ingenti, di denaro pubblico, in cui in parte confluiscono le tasse che noi paghiamo. Come ho scritto,

è regola generale dello stato di diritto che tutti i soggetti dell’ordinamento siano sottoposti a identiche regole, rispetto alle quali non costituisce lesione del principio di uguaglianza, il fatto che “la persona del Re è sacra e inviolabile”, come si legge nell’art. 4 dello Statuto Albertino, che “il Presidente della Repubblica non è responsabile degli atti compiuti nell’esercizio delle sue funzioni” (art. 90 della Costituzione) o che “I membri del Parlamento non possono essere chiamati a rispondere delle opinioni espresse o dei voti dati nell’esercizio delle loro funzioni”, né che “senza autorizzazione della Camera alla quale appartiene, nessun membro del Parlamento può essere sottoposto a perquisizione personale o domiciliare, né può essere arrestato o altrimenti privato della libertà personale, o mantenuto in detenzione, salvo che in esecuzione di una sentenza irrevocabile di condanna, ovvero sia colto nell’atto di commettere un delitto per il quale è previsto l’arresto obbligatorio in flagranza” (art. 68 Cost.).

Sono norme dirette ad assicurare la libertà di azione del Capo dello Stato (Re o Presidente) o l’esercizio dell’essenziale funzione di rappresentanza politica che la Costituzione conferisce ai membri del Parlamento “senza vincolo di mandato” (art. 67) che sarebbe limitata se le opinioni espresse “nell’esercizio” delle funzioni fossero l’occasione di limitazioni della libertà politica.

Altra cosa è, invece, la gestione delle risorse pubbliche, cioè delle somme di bilancio provenienti dalla generalità dei contribuenti che le mettono a disposizione delle autorità attraverso il prelievo fiscale. Per cui “l’obbligo di render altrui conto di una gestione, di un’amministrazione, la quale non sia stata condotta nel proprio esclusivo interesse è regola d’ordine razionale, che non può, dunque, esser collocata in una o in un’altra epoca storica”, come disse Ferdinando Carbone, Presidente della Corte dei conti, il 10 dicembre 1962, in occasione del suo primo centenario. Si tratta di una regola presente tanto nel diritto pubblico che nel privato, vecchia di duemila anni e che il Codice Giustinianeo disciplina sotto la rubrica de ratiociniis tam publicis quam privatis.

A questa regola generale non può sottrarsi nessuno. Anche il Governo presenta annualmente alle Camere il conto della sua gestione (art. 81, Cost.) previamente verificato dalla Corte dei conti che ne sancisce la regolarità, con sentenza, rendendo intangibili i conti che solo le Camera possono modificare “con legge”, quell’atto del potere pubblico che, può tutto “tranne che trasformare un uomo in donna e viceversa”, frase attribuita all’illuminista francese Jean Louis de Lolme.

Dalla generalità dei gestori di pubblico denaro tenuti alla resa del conto sono oggi esenti la Camera dei deputati, il Senato della Repubblica, la Presidenza della Repubblica e la Corte costituzionale. Non che ci sia una legge in tal senso, né ordinaria né costituzionale.

A stabilire questa esenzione è stata la Corte costituzionale con la sentenza n. 129 del 24 giugno 1981, che ha dichiarato “che non spetta alla Sezione I giurisdizionale della Corte dei conti [che aveva avviato la procedura per la resa del conto] il potere di sottoporre a giudizio di conto i tesorieri della Presidenza della Repubblica, della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica”.

Questa decisione non mi ha mai convinto .

È una interpretazione del sistema costituzionale che sembra ispirata piuttosto ad una sorta di ius singulare di medievale memoria (nel senso deteriore del termine) piuttosto che ad una moderna democrazia fondata sulle regole fondamentali dello Stato costituzionale.

L’esenzione dalla presentazione del conto ad una magistratura che la Costituzione ha voluto giudice della “contabilità pubblica” non ha un fondamento razionale, dacché la esclusione degli organi costituzionali da un adempimento che attiene a somme messe a loro disposizione dal bilancio dello Stato appare assolutamente in contrasto con la regola della trasparenza che ovunque si proclama come espressione di democrazia.

Questo orientamento anacronistico lo è ancora di più in un momento storico nel quale le istituzioni pubbliche e la stessa classe politica soffrono di un ridotto credito da parte dell’opinione pubblica, a causa di errori od omissioni protrattisi nel tempo, rispetto alle esigenze attuali del Paese, con una evasione fiscale certificata dall’Agenzia delle entrate in 120 miliardi annui, cui si aggiungono i conti degli sprechi e della corruzione (60 miliardi annui, dice la Corte dei conti) con la conseguenza che i cittadini sono sottoposti ad una pressione fiscale mai raggiunta in un paese occidentale, a fronte della quale i servizi resi dalle pubbliche amministrazioni, a tacer d’altro, sono estremamente modesti, comunque inadeguati rispetto al prelievo fiscale.

Il tutto in un contesto di cattiva utilizzazione delle risorse e di sprechi che hanno consigliato il Governo ad introdurre l’ottobre scorso, con un provvedimento d’urgenza, controlli della Corte dei conti su regioni ed enti locali e ad avviare una riforma costituzionale che quei controlli dovrebbe consolidare in un contesto di restituzione allo Stato di strumenti autentici di tutela degli interessi nazionali.

In questo quadro di grave crisi di valori e di fiducia nelle istituzioni, mentre spinte demagogiche possono costituire un pericolo per la stessa democrazia, il Presidente della Repubblica rimane, lo dicono i sondaggi, come sentiamo tutti, un punto di riferimento istituzionale e morale che non poco contribuisce a convincere gli italiani a sopportare la pesante pressione fiscale e le diffuse inefficienze delle amministrazioni pubbliche.

S’invoca trasparenza e se ne dà prova con alcune iniziative, come quella della pubblicazione dei alcuni redditi di personalità del Governo.

In questo quadro appare conseguente alla riconosciuta personalità democratica del Presidente della Repubblica, primo tutore della legalità e garante imparziale delle istituzioni, attendersi un gesto proprio da Primo Servitore dello Stato, quello di rendere il conto della gestione della Presidenza della Repubblica alla Corte dei conti invitando Senato e Camera dei deputati a fare altrettanto.

Sarebbe un gesto che gli italiani apprezzerebbero moltissimo ed avrebbe la conseguenza di sdrammatizzare la protesta che sale dal Paese e della quale lo stesso Capo dello Stato si è mostrato più volte preoccupato.