Salvatore Sfrecola ha pubblicato questo articolo anche sul blog “Un sogno italiano” col titolo: “La denuncia della pericolosità dell’amianto in due sentenze di inizio ‘900”.
Scritta a penna, com’era abitudine all’epoca e ancora in Cassazione nel secondo dopoguerra, spunta dal polveroso archivio del Tribunale di Torino una sentenza del 31 ottobre 1906, emanata in nome del re Vittorio Emanuele III, confermata in appello un anno dopo, nella quale si denuncia la pericolosità della polvere di amianto.
L’ha ricordata Paola Italiano, che ne ha scritto su La Stampa riportando passi di quella lucida pronuncia di 110 anni fa, quando la gente cominciava a morire per la fibra killer respirata lavorando nelle fabbriche del Canavese.
E fu subito uno scontro tra diritto e scienza, allora come oggi, tra chi sosteneva e sostiene la pericolosità della polvere di amianto e le imprese interessate a negarla. Nonostante, come afferma la Corte d’appello di Torino, sia “cognizione facilmente apprezzabile da ogni persona dotata di elementare cultura che l’aspirazione del pulviscolo di materie minerali silicee come quelle dell’amianto può essere maggiormente nociva” di altre polveri.
“Elementare cultura” per dire che non occorre un premio Nobel in medicina per ritenere provato il danno di chi deposita nei polmoni la polvere di silicio. Poi verranno indicazioni più puntuali sulla base dell’esperienza maturata negli ospedali della zona per patologie altrove non riscontrate.
Paola Italiano riporta alcune frasi della sentenza di primo grado:
“L’avvocato Pich quando scrisse che la mortalità in genere è maggiore fra i funerali dell’amianto che fra quelli delle altre industrie; i certificati prodotti lo provano in modo veramente irreputabile”.
Quale commento a questa vicenda? Ci sarà certamente qualcuno il quale dirà che i giudici fanno politica industriale quando chiudono gli impianti e impongono l’adozione di cautele per evitare emissioni inquinanti gravemente lesive della salute.
Infatti è compito dei giudici tutelare sulla base della Costituzione che all’articolo 32 individua la salute “come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività”.
E qui emerge la disattenzione del legislatore e dell’autorità amministrativa e la loro subordinazione ad interessi privati non meritevoli di essere salvaguardati, perché se lo sviluppo industriale è funzionale al benessere della comunità questo non può essere raggiunto a danno della vita dei lavoratori.
Costringere persone che hanno bisogno di lavorare a scegliere fra il guadagno per sostenere le proprie famiglie e la salute è certamente una dimostrazione dell’incapacità della classe politica di considerare e tutelare valori fondamentali come quelli della dignità del lavoratore, della su< salute e dell’ambiente. Perché molte strutture industriali che producono fattori inquinanti oltre a danneggiare la salute degli addetti e delle popolazioni residenti alterano gravemente le condizioni ambientali in un Paese, l’Italia, che affida alla meravigliosa natura che ne ha fatto un tempo il giardino d’Europa anche una preziosa realtà turistica.
Eppure c’è da scommettere che in questo Paese ad alto tasso di illegalità qualcuno, senza preoccuparsi di offendere la memoria dei morti, continuerà a ripetere, senza vergognarsi, che i giudici debordano dalla funzione loro propria, che svolgono attività di supplenza, che fanno politica industriale.