I taralli di Corato non faranno danni

di Antonio Del Giudice
Pubblicato il 8 Ottobre 2012 - 17:10 OLTRE 6 MESI FA

ROMA – Una trentina di anni fa, una simpatica trasmissione Rai lanciava un innocente quiz: “quale re disse il mio regno per un tarallo?” Dice la Guardia di Finanza, e io spero che non sia vero, che a Corato hanno profanato il tarallo. Dice che nella farina ci mettevano mangime per cavalli. E’ una notizia terribile per il tarallo e per noi pugliesi. No, non come quella del metanolo nel vino, ché tanto non è morto nessuno: se il mangime va bene per i cavalli, magari va bene anche per gli esseri umani.

Ma non può andare bene nei taralli, che sono l’orgoglio e il nutrimento principe per i pugliesi, dal tempo dei greci e degli arabi. Che so, come gli ossibuchi per i milanesi che erano (e sono) più ricchi di noi, che la carne mangiavamo soltanto alla Festa del santo patrono. Quando eravamo bambini, il tarallo era la consolazione quotidiana, il premio, il piacere distillato. Piacere che assapora chiunque passi per la Puglia, cinquecento chilometri di taralli, dal Gargano al Salento, con le eccellenze di Andria, Gravina, Altamura, Cisternino, Martina Franca, Maglie. E (giudizio sospeso) fino a ieri anche Corato.

Se c’è un momento nitido che resiste nella mia memoria invecchiata è l’arrivo al venerdì a mezzogiorno del garzone con il pane, le focacce e i taralli che mia nonna aveva preparato nella notte e che il fornaio aveva cotto nel forno a legna, un forno di pietra che aveva quattrocento anni. L’assalto dei ragazzini era ai taralli e, in seconda battuta, alle focacce. Il pane poteva aspettare, non te lo rubava nessuno, sarebbe servito per tutta la settimana. I pugliesi che, dal secondo dopoguerra, hanno invaso Roma e Milano, Torino e Bologna hanno esportato il pane, quello fatto col grano duro del Tavoliere, ma non sono riusciti ad esportare pane e focacce. E poi il pane buono sono capaci di farlo anche a Caserta e all’Aquiila, ma i taralli no, quelli non li sa fare nessuno, tranne noi pugliesi.

Non è una questione di campanile né di tecnica, è una questione di materia prima. Un tarallo è il sapiente impasto di farina pugliese, di vino bianco, di sale (poco), di olio pugliese (tanto) e di seme di finocchio selvatico della Murgia. La Murgia è una spina dorsale di pietre che attraversa la Puglia all’interno, il luogo della transumanza dei pastori abruzzesi. La Murgia è generosa solo di sassi; regala qua e là qualche cardo selvatico, qualche fungo cardoncello (meglio che un porcino), e il seme di finocchio selvatico che serve per due bontà: la salciccia di maiale fatta a mano (niente tritacarne), gli inimitabili taralli.

La storia di Corato mette un po’ di malinconia, ma non farà molti danni. Se penso che il metanolo-killer (come scrissero i giornali) fu l’inizio di una grande stagione per il vino italiano, verrebbe da dire che l’innocuo mangime per cavalli potrebbe fare lo stesso miracolo. Scatenerà la curiosità e la domanda di taralli. Ma ahimé il mercato non ne beneficerà; forse nasceranno succedanei senza mangime proibito, ma per i taralli veri bisogna avere pazienza. Ai sassi della Murgia, poco frega della domanda e dell’offerta, il suo finocchio selvatico è spontaneo e capriccioso, non risponde ai Mercati. Il tarallo, per fortuna, non è quotato in Borsa.