La vera storia dei 101: chi davvero contro Prodi? D’Alema, Rodotà, altro che Renzi

di Redazione Blitz
Pubblicato il 26 Gennaio 2015 - 13:39 OLTRE 6 MESI FA
La vera storia dei 101: chi davvero contro Prodi? D'Alema, Rodotà, altro che Renzi

La vera storia dei 101: chi davvero contro Prodi? D’Alema, Rodotà, altro che Renzi

ROMA – La vera storia dei 101: chi davvero contro Prodi? D’Alema, Rodotà, altro che Renzi. Non fu la delegazione democratica ispirata da Matteo Renzi (il 19 aprile 2013 l’allora sindaco di Firenze controllava giusto 35 voti) a far fuori il candidato Romano Prodi alla penultima corsa per il Quirinale.  Si sa come andò a finire, non si conosce ancora il mandante. Tuttavia di impronte digitali riscontrabili su quella manovra d’aula che sancì la spaccatura del Pd e favorì l’ascesa di Renzi, ci sono finora quelle di Massimo D’Alema, e non è proprio uno scoop, e quelle di Stefano Rodotà, questa sì una primizia.

Almeno secondo l’accurata ricostruzione di Fabio Martini su La Stampa, che cita testimoni e protagonisti della vicenda, mette insieme indizi, separa il plausibile dall’implausibile, come l’accusa di pochi giorni fa lanciata da Stefano Fassina della minoranza Pd (“Renzi a capo dei 101”), per la buona ragione che a Renzi non sarebbe convenuto.

Infatti, subito dopo il fallito tentativo Marini, Renzi scende a Roma e dopo aver riunito i suoi al ristorante Eataly del suo amico Farinetti, comunica loro che “si vota Prodi”. Il motivo, dal suo punto di vista, ha una sua coerenza politica: scommette su una figura alta e indipendente come quella del Professore perché è l’unico antitodo al disegno di un governo di legislatura che lo congelerebbe, preferisce un capo dello Stato che non ha paura di tornare al voto. Nelle stesse ore anche Bersani sta cambiando cavallo: precipitosamente lancia, senza troppo prepararla, la candidatura Prodi, manifesto vivente della rottura di qualsiasi rapporto con Berlusconi.

D’Alema, convinto che dopo Marini possa toccare a lui (ed è per evitarlo, rivela lo stesso Marini, che Bersani lancia Prodi) propone all’assemblea Pd di metterla ai voti. Il 18 sera, all’ex cinema Capranica, però, quando Bersani fa il nome di Prodi le prime due file si alzano ad applaudire costringendo chi presiede l’assemblea a decretare Prodi candidato Pd per acclamazione. Anna Finocchiaro, iscritta a parlare per presentare la candidatura alternativa di D’Alema resta al suo posto. Il risentimento che ne deriva tra i dalemiani, quand’anche più per lo sgambetto regolamentare e l’impossibilità di procedere a una conta che per la delusione della sconfitta, è palese. Meno palese, il ruolo di Stefano Rodotà, il candidato di Grillo di provenienza democratica.

In quelle ore convulse chi può ancora fare la differenza è Stefano Rodotà, votato fino a quel momento dai Cinque Stelle. Vanno da lui i capigruppo Crimi e Lombardi per chiedergli se sia pronto a lasciare il campo a Prodi e invece la sorpresa: non si ritira e mette il suo mandato nelle mani del Cinque Stelle. Ha confidato di recente uno dei due ex capigruppo: «Eravamo sicuri che Rodotà si sarebbe ritirato e invece…». Anche Prodi cerca Rodotà, che fa capire che a chiamarlo deve essere Bersani e comunque l’essenza del passaggio è chiara: davanti ad una soluzione «alta» come quella di Prodi, Rodotà non si ritira.

Il Professore conclude le sue telefonate e intanto in Parlamento si prepara l’affondamento. Ha scritto Sandra Zampa nel suo libro su quei tre giorni che il senatore Ugo Sposetti (dalemiano doc) «faceva telefonate per sollecitare un no a Prodi», ma non era «l’unico telefonista in servizio». Anche perché erano tante le tribù «offese» dagli errori di quelle ore, dalemiani, orfani di D’Alema, ex popolari orfani di Marini. Prima che la votazione inizi, Prodi telefona alla moglie Flavia: «Non passerò». (Fabio Martini, La Stampa)