Lodo Alfano: la Corte costituzionale spiega perché è stato bocciato

Pubblicato il 20 Ottobre 2009 - 00:08 OLTRE 6 MESI FA

Sono state depositate lunedì sera tardi le motivazioni della sentenza, con la quale la Corte Costituzionale il 7 ottobre scorso ha bocciato il Lodo Alfano: «Il Lodo Alfano attribuisce ai titolari di quattro alte cariche istituzionali un eccezionale ed innovativo status protettivo che non è desumibile dalle norme costituzionali sulle prerogative e che, pertanto, è privo di copertura costituzionale».

La sospensione processuale prevista dal Lodo Alfano «è diretta essenzialmente alla protezione delle funzioni proprie dei componenti e dei titolari di alcuni organi costituzionali e, contemporaneamente, crea un’ evidente disparità di trattamento di fronte alla giurisdizione. Sussistono, pertanto, i requisiti propri delle prerogative costituzionali, con conseguente inidoneità della legge ordinaria a disciplinare la materia».

Scrive ancora la Corte: «Non è configurabile una preminenza» del presidente del Consiglio rispetto ai ministri «perché egli non è il solo titolare della funzione di indirizzo del Governo, ma si limita a mantenerne l’unità, promuovendo e coordinando l’ attività dei ministri, e ricopre perciò una posizione tradizionalmente definita di “primus inter pares”».

«Anche la disciplina costituzionale dei reati ministeriali – aggiunge la Corte – conferma che il presidente del Consiglio e i ministri sono sullo stesso piano». Più avanti la Consulta aggiunge che allo stesso modo «non è configurabile una significativa preminenza dei presidenti delle Camere sugli altri componenti, perché tutti i parlamentari partecipano all’ esercizio della funzione legislativa come rappresentanti della Nazione e, in quanto tali, sono soggetti alla disciplina uniforme dell’ art. 68 della Costituzione” sull’immunità.

«Il legislatore ordinario, in tema di prerogative (e cioé di immunità intese in senso ampio), può intervenire solo per attuare, sul piano procedimentale, il dettato costituzionale, essendogli preclusa ogni eventuale integrazione o estensione di tale dettato»: per la Corte costituzionale, tra le ragioni per cui bocciare il Lodo Alfano, c’è la violazione, tra l’altro, dell’art. 138 della Costituzione (revisione costituzionale).

«Il legittimo impedimento a comparire ha già rilevanza nel processo penale» e, pertanto «non appare necessario il ricorso al lodo Alfano per tutelare la difesa dell’imputato impedito a comparire nel processo per ragioni inerenti all’alta carica da lui ricoperta»: citando, al riguardo, precedenti sentenze della stessa Consulta, tra cui quella sul caso Previti (n. 451 del 2005), la Corte ribadisce che anche per le alte cariche la tutela del diritto di difesa è già adeguatamente soddisfatta in via generale dall’ordinamento proprio con l’istituto del legittimo impedimento.

«La scelta del legislatore di avere riguardo esclusivamente ad alcune cariche istituzionali e di prevedere l’ automatica sospensione del processo, senza alcuna verifica caso per caso dell’impedimento, evidenzia, dunque, che l’unica ratio compatibile con la norma censurata è proprio la protezione delle funzioni connesse all'”alta carica”». Per questo la Corte ha ritenuto di non condividere una delle tesi centrali del Lodo Alfano, quella della sospensione dei processi per evitare alle alte cariche intralci allo svolgimento delle loro «rilevanti funzioni istituzionali».

La corte afferma che il lodo Alfano non sarebbe stato necessario ai fini del legittimo impedimento a comparite in un processo ricordando la sua precedente sentenza n.451 del 2005 (relativa al caso Previti) in cui la sospensione del processo per legittimo impedimento disposta in base al codice di rito penale «contempera il diritto di difesa con le esigenze dell’esercizio della giurisdizione, differenziando la posizione processuale del componente di un organo costituzionale solo per lo stretto necessario, senza alcun meccanismo automatico e generale».

La sospensione dei processi nei confronti delle quattro alte cariche dello Stato, prevista dal Lodo Alfano, «determina la violazione del principio di uguaglianza per una violazione di trattamento di fronte alla giurisdizione».

La deroga, infatti, secondo la Corte,  si risolve in una evidente disparità di trattamento «rispetto a tutti gli altri cittadini che, pure, svolgono attività che la Costituzione considera parimenti impegnative e doverose, come quelle connesse a cariche o funzioni pubbliche (art. 54 Cost.) o, ancora più generalmente, quelle che il cittadino ha il dovere di svolgere, al fine di concorrere al progresso materiale o spirituale della società (art. 4, secondo comma, della Costituzione)».