Libia, Al-Huni: “Battaglia finale a Sirte. Di Gheddafi non resterà nulla”

Muhammar Gheddafi

ROMA – Partecipò al fianco di Muhammar Gheddafi al golpe contro re Idris nel 1969. Ma oggi Abd al-Munim al-Huni prende le distanze dal suo antico compagno di lotte: “Volevamo cambiare la Libia in meglio, spiega a Repubblica. Volevamo rapporti ottimi con il mondo arabo e pace con l’Occidente. Per questo abbiamo cacciato il re. Invece siamo finiti nelle mani di un sanguinario. Un potere senza limiti dalla fine degli anni ’70 lo ha trasformato in un criminale corrotto, che ora è rimasto solo con i suoi soldi e le sue armi. Ma il popolo libico lo processerà, e la storia lo spazzerà via”.

Al Huni oggi vive al Cairo. In Libia rappresentava la Lega Araba. Appena è scoppiata la rivolta, lo scorso 21 febbraio, ha troncato ogni rapporto con il regime. Ma annuncia: “Dopo la vittoria degli insorti tornerò a Tripoli, la mia città. È questione di giorni”.

I legami di Al Huni con il rais risalgono al 1963. Nel settembre del 1969 Al Huni, allora capitano, riceve l’ordine di arrestare il principe ereditario Hassan al-Rida a Tripoli, mentre Gheddafi si occupa delle caserme di Bengasi.

Sei anni dopo, sospettato di complottare contro colui che un tempo fu il suo compagno, Al Huni fugge. Nonostante un riavvicinamento negli anni Novanta, oggi le distanze tra lui e il regime si sono ampliate in modo irreparabile.

“Vinceranno gli insorti. Anche se il Criminale – come Al Huni chiama Gheddafi – ha soldi e molte, molte più armi, i giovani hanno una volontà di ferro. Gheddafi è odiato, non ha più legittimità. Il suo Libro Verde viene bruciato nelle piazze. Il consenso ormai può solo comprarlo con i soldi, e infatti attorno a lui restano i mercenari”.

Sui legami economici tra il regime libico e il presidente del Consiglio Silvi Berlusconi dice: “Non è un segreto che tra il Criminale e Berlusconi esistano forti interessi. Parlo di interessi privati, non di interessi legati al bene pubblico. E non mi stupisce che oggi l’Italia adotti una posizione ambigua. Avremmo voluto una condanna esplicita della violenza e il congelamento delle finanze del regime. Invece niente. Questo atteggiamento non può che rafforzare i nostri sospetti sul vostro paese”.

Ricorda il passato e la comunanza di vedute, e di speranze: “Da ufficiali avevamo in mente un futuro migliore per il nostro paese e per il mondo arabo nel complesso. Un futuro che il re non poteva assolutamente garantire. Il Criminale è cambiato dopo il 1975, quando ha concentrato tutto il potere nelle sue mani. Da quel momento non ha portato al paese che disgrazia e catastrofi. Finita questa guerra, sono convinto che di lui non resterà nulla. Aspettiamo la battaglia decisiva, che si svolgerà a Sirte. Poi vogliamo che sia processato da un tribunale civile libico per crimini contro il popolo e contro il mondo”.

Sul futuro della Libia smentisce le visioni catastrofiste: “Non ci sarà guerra civile tra tribù, né l’islam estremista prenderà il sopravvento. Il popolo libico è moderato e tollerante. Avremo uno stato democratico con libere elezioni, separazione fra i poteri e la legge al di sopra di tutto. Sappiamo che non sarà facile. La democrazia è una cultura, e occorre tempo perché permei una società abituata da decenni al partito unico. Ma i popoli arabi hanno sete di questo. Ne hanno una sete tremenda. E dopo la vittoria della Libia, la rivoluzione andrà avanti. Non risparmierà nessun paese”.

Infine, una battuta sulle Amazzoni con cui si era presentato anche a Roma: “Sparite, tornate tutte a casa”.

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