Usa – Yemen: quando un leader corrotto è il male minore

Pubblicato il 5 Gennaio 2010 - 09:42 OLTRE 6 MESI FA

Ali Abdullah Saleh

Il nuovo fronte della lotta statunitense ad al-Qaeda è lo Yemen.  Si tratta, però, di un Paese complesso guidato da Ali Abdullah Saleh, 67 anni, uomo che ha dedicato questi ultimi anni al consolidamento del proprio potere personale piuttosto che all0 sviluppo della nazione.

Scrive il New York Times che Saleh ha assegnato tutte le cariche più importanti ai suoi familiari e che, nonostante sia relativamente giovane  e goda di ottima salute, ha già pianificato la successione; per prendere il suo posto alla guida dello Yemen, infatti, è pronto il figlio Ahmed. Sempre che le cellule di al Qaeda lo permettano.

La situazione nel Paese, infatti, è in rapido divenire: al sud prendono sempre più forza i movimenti separatisti, nelle zone petrolifere dilaga la penetrazione di al-Qaeda e fuori dalle città comandano i capi tribali la cui fedeltà a Saleh è sempre più incerta.

La principale colpa di Saleh è stata una gestione personalistica del potere all’insegna di una sorta di “familismo amorale” che ha peccato nella redistribuzione della ricchezza e, ora che i proventi del petrolio sono calati drasticamente, ha lasciato gran parte di popolazione sotto la soglia di povertà. A complicare ulteriormente la situazione, c’è anche la corruzione e una burocrazia lenta e macchinosa.

Così, mentre le popolazioni lontane dalla capitale sopravvivevano senza acqua corrente ed elettricità il leader yemenita si è preoccupato di costruire un’enorme moschea che porta il suo nome: costo dell’impresa 120 milioni di dollari.

In un quadro simile al Qaeda ha trovato un humus fertile per il suo proselitismo anche perchè, scrive il quotidiano newyorkese, la lotta al terrorismo non rientra certo nelle priorità di Saleh. Tuttavia, dal punto di vista statunitense, la permanenza in sella del leader yemenita è, almeno per il momento, il male minore.

Ma per Saleh il primo problema rimane la situazione nel nord del paese. Per sedare la ribellione il presidente si è indebitato fortemente – almeno due miliardi di dollari – con l’Arabia Saudita. E l’aiuto stanziato dagli Usa per il Paese asiatico – circa 150 milioni – è decisamente insufficiente a far fronte al debito.

Non solo: con la designazione del figlio Ahmed, Saleh ha anche spaccato il fronte degli alleati. Per Ali Mohsen, vicino al presidente dal 1977 e leader della repressione militare al nord, Ahmed non ha il carisma del padre e non è in grado di tenere le redini del Paese.

La parola chiave, per gli Usa, è ricomposizione delle divisioni interne alla classe dirigente Yemenita. Ma si tratta di un compito, conclude non senza preoccupazione il New York Times, che richiede “più conoscenza e delicatezza di quella che il Pentagono, almeno per il momento, può mettere in campo”.