
I referendum del prossimo otto giugno, dopo 80 anni di storia repubblicana e costituzionale -Blitzquotidiano.it (foto Ansa)
Il referendum del prossimo otto giugno, dopo 80 anni di storia repubblicana e costituzionale.
La più nobile e antica “carta costituzionale” del mondo, quella inglese, è nata attraverso sanguinose lotte contro i tiranni ed è il risultato del “diritto vissuto” di infinite generazioni. Questa “Carta millenaria” non ha più “autorità” di qualsiasi altra legge ordinaria.
La Costituzione italiana, frutto di compromessi tra forze politiche agli antipodi, è invece “rigida”: se vuoi cambiare un comma devi superare soglie parlamentari al limite dell’impossibile oppure ricorrere ad un referendum.
I nostri “padri costituenti” sapevano che il testo da essi approvato era molto debole: “Noi ed i nostri figli rimedieremo a tutte le lacune ed ai difetti, che esistono e sono inevitabili” (Ruini). Le bande rissose che si sono succedute fino ad oggi, hanno impedito questo rinnovamento, marcando il proprio territorio e riducendo gli spazi degli “avversari”.
Le formazioni di sinistra erano contrarie all’istituto del referendum che, in ogni caso, avrebbe dovuto essere utilizzato con parsimonia. Riporto la sintesi delle loro principali critiche: “I partiti esauriscono tutta la realtà politica perché riflettono l’intera società, il referendum sarebbe una inutile sovrapposizione. Quando il referendum non è bene utilizzato può diventare un espediente ostruzionistico con maschera democratica. I referendum rompono l’unità dell’azione governativa, creano una frattura e una discontinuità”.
Alla fine il referendum fu approvato, allo scopo di “educare le masse a interessarsi della cosa pubblica”.
Il primo e unico referendum istituzionale è stato quello del 1946 sulla scelta tra monarchia e repubblica. Secondo gli analisti più accreditati, la materia specifica del referendum non la trattò nessuno e non venne portata all’attenzione dei votanti. Ne uscì fuori un Paese spezzato a metà.
Diritti delle minoranze

La più alta espressione della morale liberale, diventata patrimonio degli ex comunisti, consiste nella difesa dei diritti delle minoranze. Il punto importante non è chi esercita il potere, ma se i diritti della minoranza siano rispettati nonostante una maggioranza grande e potente.
Il programma politico di Elly Schlein si basa sulla tutela dei diritti umani. La legge Cirinnà consente le unioni civili tra persone dello stesso sesso. In Italia la morte assistita è ammessa, a certe condizioni, grazie a una sentenza della Corte Costituzionale del 2019.
Ha mai pensato la Segretaria del PD che tutti questi diritti potrebbero essere spazzati via con un referendum? Se ciò si dovesse verificare, quale sarebbe il suo giudizio politico? Affermerebbe che la volontà del popolo è sovrana oppure che il referendum può essere il “nemico subdolo” di ogni democrazia?
A tale riguardo, voglio ricordare che in Colombia era stato firmato un accordo storico tra il governo di Bogotà e il gruppo rivoluzionario della “Farc”, che segnava la fine del conflitto. Il presidente Santos nel 2016 era stato insignito del premio Nobel per la pace. Il referendum popolare aveva respinto l’accordo, facendo ripiombare il paese nel caos totale.
L’esito dei referendum sulla pena di morte in alcuni Stati Usa, dipende dall’emotività della popolazione condizionata da particolari eventi sociali. Del resto, il referendum proposto dai radicali nel 1981 che voleva eliminare l’ergastolo, fu respinto con una valanga di NO.
La Costituzione italiana non garantisce il bene supremo di una Nazione: la governabilità. Questa circostanza è acclarata e condivisa da tutte le forze politiche.
Si è cercato di cambiare la governance del Paese con la Bicamerale Bozzi del 1983, cui ha fatto seguito quella di De Mita-Iotti del 1993, di D’Alema nel 1997, la Commissione Quagliarello del 2013. Fino alla revisione costituzionale del governo Renzi, approvata dal Parlamento e bocciata in sede referendaria con il contributo di D’Alema.
Il referendum del 2006 proposto dal governo Berlusconi, che prevedeva la riduzione del numero dei parlamentari, la fine del bicameralismo perfetto, la trasformazione del Senato in Senato federale, fu bocciato con il 61% dei votanti. Sarebbe stato necessario attendere il ciclo del potere “mediatico”grillino per ridurre il numero dei parlamentari, peraltro con risultati pratici inesistenti.
I referendum più numerosi sono stati quelli “abrogativi”
Dal 1974 al 2022 sono stati proposti 72 quesiti referendari, con esito positivo in 23 casi e negativo in 49. Segno che la gente non è andata a votare per una scelta di principio oppure perché ha ritenuto inutili i quesiti proposti. Non sembra proprio che l’auspicio dei padri fondatori di “educare le masse a interessarsi della cosa pubblica” si sia realizzato.
I referendum “barzelletta” in quanto privi di effetti nonostante l’approvazione, sono stati numerosi. Il Referendum proposto dall’Italia dei Valori nel 2011 per l’Acqua “Bene comune”, che voleva impedire la gestione del settore da parte dei privati, fu votato SI al 99,35%. Con il risultato che il più grande business dei gruppi industriali in Italia sarebbe diventato quello “idrico”.
Il referendum del 1993 che voleva eliminare o ridimensionare il Ministero dell’Agricoltura e delle Foreste ha avuto l‘effetto del cambio di nome in “Ministero dell’agricoltura, della sovranità alimentare e delle foreste”, senza che fosse licenziato neppure un funzionario.
Il referendum anti Berlusconi del 1995 sulle “interruzioni pubblicitarie e sul tetto massimo della raccolta di pubblicità”, che aveva raggiunto il quorum, era stato respinto.
Ma il più inutile referendum della storia repubblicana è stato quello sulla responsabilità civile dei magistrati del 1987, approvato con oltre l’80% di SI. Con l’effetto pratico di trasferire l’onere dei risarcimenti in capo al contribuente italiano.
Il voto referendario è un dovere civico?
Qui siamo alle comiche.
“Non votare un referendum inutile e sbagliato è un diritto di tutti i lavoratori e non”, si leggeva in un volantino elettorale del 2003 in cui campeggiava un simbolo dei Ds.
Nel 2016, il segretario del PD Matteo Renzi si schierò contro il referendum sulle trivelle: “Come ha magistralmente spiegato Giorgio Napolitano, se il referendum prevede il quorum, la posizione di chi si astiene è costituzionalmente legittima”.
Anche la destra non scherza ed un politico “twittatore” come Matteo Salvini prende posizione per il voto o per l’astensione a seconda dei propri interessi del momento.
E’ stata dunque l’intera classe politica a screditare l’istituto del referendum.
Tolto di mezzo ogni ragionamento sull’obbligatorietà “civica” della “partecipazione”, non resta che considerare la natura dei quesiti referendari del prossimo 8/9 giugno. Partiamo dai quattro quesiti in materia di lavoro, con i quali si vogliono eliminare gli effetti del Job Act.
Nel febbraio 2014, in Italia nacque un governo “arlecchino” presieduto da Matteo Renzi (PD) con il voto del Nuovo centrodestra, dell’Unione di Centro, dei Popolari per l’Italia e dei socialisti. Gli succedettero il governo Gentiloni, i due governi Conte, il governo di Mario Draghi e, nell’ottobre 2022, il governo di centrodestra della Meloni.
Si deve a Renzi l’approvazione delle misure sulla libertà di licenziamento con il tetto dell’indennità, e di alcune norme sull’utilizzo dei contratti a termine. Da anni era consentito il ricorso ad appaltatori privi di solidità finanziaria, senza responsabilità dell’imprenditore committente in caso di infortuni. Le principali aziende pubbliche e private italiane ricorrevano, da almeno due decenni ai subappalti per ridurre il costo del lavoro, con la complicità dei sindacati.
Per tutto questo periodo, i partiti della sinistra e del movimento grillino, sono stati silenti e non hanno contestato la disciplina del lavoro che oggi vorrebbero eliminare per via referendaria.
Si tratta di una presa di posizione tardiva ed arcaica, che potrebbe avere conseguenze negative sul sistema delle imprese, specie di quelle piccole e medie.
In Italia, il lavoro nel settore “pubblico” è come un treno rapido che passa: chi è dentro il treno sa di non scendere mentre chi è fuori è quasi certo di non poter salire. I più grandi complessi aziendali italiani operano in regime di monopolio o di oligopolio e realizzano utili enormi da destinare agli azionisti. Ne costituiscono esempi, non certo virtuosi, i concessionari dei servizi autostradali che arrivano a risparmiare sulle spese di manutenzione, oppure le aziende erogatrici dei servizi telefonici, dell’energia e dell’acqua, le cui tariffe sono le più elevate in Europa. Al punto che lo Stato deve intervenire con sussidi ai più indigenti e alle imprese in difficoltà.
Diversa è la situazione per il settore privato ed in particolare per quello delle piccole e medie imprese, i cui ritmi produttivi sono segnati dal mercato.
Un sindacato o una forza politica che avesse in mente di tutelare le classi sociali sacrificate, si scaglierebbe contro i grandi gruppi, promuovendo un referendum mirato a ridurre le tariffe dei servizi pubblici. Invece no: le rappresentanze sociali e la sinistra propongono referendum mirati ad elevare i costi delle aziende marginali che vivono o muoiono a seconda delle commesse in portafoglio. Senza commesse l’azienda chiude e, per evitarlo, deve ridurre i prezzi di vendita dei prodotti o i costi fissi della struttura.
Su queste basi, il referendum del prossimo 8 giugno appare concepito per colpire la Meloni, come era avvenuto per Berlusconi e Renzi. E’ vero che il governo non ha preso posizione, ma i partiti di governo e il presidente del Senato, hanno invitato a disertare i seggi.
Se dunque fosse raggiunto il quorum, la vittoria dei SI sarebbe certa, con evidenti conseguenze politiche ancor più significative, considerato che i media hanno in pratica ignorato questo referendum.
Sono invece favorevole al quesito sulla cittadinanza che riguarda gli immigrati inseriti nel tessuto economico e sociale e che svolgono i lavori abbandonati dagli italiani. Bisogna semmai espellere dal paese i connazionali che rifiutano quei lavori e mandarli in Africa o in Albania organizzando apposite tratte a spese dello Stato.