30 aprile 1975, la caduta di Saigon, Vietnam. Bernardo Valli, ricordo 40 anni dopo

di Redazione Blitz
Pubblicato il 30 Aprile 2015 - 07:00 OLTRE 6 MESI FA
30 aprile 1965, la caduta di Saigon. Bernando Valli, "la mattinata di 40 anni fa"

30 aprile 1975, la caduta di Saigon. Bernando Valli, “la mattinata di 40 anni fa”

ROMA – Giusto 40 anni fa si concludeva la guerra del Vietnam: con la caduta di Saigon del 30 aprile il Sud si arrendeva senza combattere al nord rivoluzionario comunista.

Il grande inviato Bernando Valli ricorda su Repubblica quella giornata grigia e piovigginosa con un bellissimo articolo in cui a dominare la scena è il presidente di un giorno, il generale Du’o’ng Van Minh, conosciuto come il Big Minh che aveva accettato con responsabilità il compito di consegnare il morente stato del Sud dopo che il predecessore era fuggito maledicendo gli americani “traditori”.

È un pezzo di grande suggestione quello di Valli, che con sensibilità teatrale fa occupare il proscenio al nobile soldato incaricato della liquidazione degli ideali e del potere spazzati via dagli occupanti. Ne pubblichiamo ampi stralci di seguito.

[…] In città i ladri sfondavano indisturbati vetrine e saracinesche; i soldati gettavano i fucili e si strappavano di dosso le divise; un ufficiale si suicidava vicino al monumento ai caduti sotto gli occhi di un giornalista; gli abitanti rinchiusi in casa ascoltavano angosciati le ultime notizie alla radio. Lui, il Big Minh, attendeva dignitoso i vincitori nel palazzo deserto. Indossava una sahariana a maniche corte. Aveva scelto quella giacca di taglio militare per compiere il più importante atto della sua vita: il passaggio del potere ai comunisti di cui gli avevano appena annunciato l’imminente arrivo. A lui spettava di concludere una guerra tra le più lunghe della storia.

Ne era convinto. Ed era emozionato. Aveva passato una notte insonne. Un amico, Jean Louis Arnaud, reporter francese, che lo incontrò in quel momento d’attesa, gli strinse la mano e la trovò grondante di sudore. Una guerra di più di trent’anni, se si contano le varie fasi: quella giapponese durante il Secondo conflitto mondiale, quella coloniale francese fino al 1954, quella successiva americana fino al ‘72, e adesso quella tra vietnamiti del Sud e del Nord infine soli, faccia a faccia, che stava per concludersi. Big Minh si illudeva. Pensava di essere preso sul serio. Immaginava i vincitori comunisti disposti a una cerimonia in cui lui, conosciuto come un leader neutrale, avrebbe negoziato la resa. Un’ora prima, alla radio, aveva ordinato all’esercito sudista di cessare il fuoco, e invitato gli avversari a fare altrettanto.

[…] La pace era imminente, ma non «nell’onore» come aveva annunciato due anni prima Richard Nixon alla firma degli accordi di Parigi, che avevano consentito la partenza dal Vietnam degli americani entro i primi giorni del ‘73. Per questo il negoziatore americano, Henry Kissinger, aveva ottenuto il premio Nobel per la pace. Le Duc Tho, il negoziatore vietnamita, l’aveva rifiutato perché sapeva che la guerra non era finita. Big Minh era un generale senza esercito. Era senza potere e quindi non aveva nulla da proporre ai vincitori in quelle ore. Né poteva pretendere quello che i militari chiamano l’onore delle armi. Rappresentava l’estremo tentativo di evitare un massacro simile a quello avvenuto pochi giorni prima a Pnom Penh, in Cambogia.

[…] Gli americani avevano deciso di sganciarsi dal Vietnam ormai da cinque anni: dal ‘68, dall’offensiva del Tet, che era stata respinta ma durante la quale si erano trovati i viet cong sotto il letto. In quell’occasione la guerra vietnamita si era rivelata una trappola. Si poteva vincere qualche battaglia e contenere il Nord, ma a un prezzo insostenibile: la presenza senza fine di mezzo milione di soldati e l’opinione pubblica negli Stati Uniti in agitazione, con punte di rivolta.  In quella guerra, l’America stava perdendo l’anima (con le torture, le repressioni indiscriminate, i bombardamenti a tappeto, con l’uso di armi chimiche) senza poter mascherare l’inconfessabile sotto il manto di una vittoria.

La super potenza che aveva trionfato nel Secondo conflitto mondiale, veniva umiliata in un angolo del pianeta, la Penisola indocinese. Nel frattempo stava per nascere un rapporto con la Cina maoista, ormai avversaria dell’Unione Sovietica e il fronte comunista mondiale risultava così spaccato. Il conflitto vietnamita diventava obsoleto, come la politica del roll back o del containment destinata ad arginare il comunismo in Asia.  La teoria del domino, secondo la quale la caduta di Saigon nelle mani del Nord avrebbe provocato un’inarrestabile estensione del comunismo, non aveva più credito. I nuovi legami con Pechino avrebbero garantito al contrario col tempo l’espansione di un capitalismo autoritario nel Sud Est asiatico, sul modello di Singapore.

[…] Erano trascorsi quindici minuti dal mezzogiorno umido di quel 30 aprile 1975 quando tre T54 di fabbricazione sovietica, con la bandiera del Fronte di Liberazione nazionale, due strisce rosse e blu orizzontali con al centro una stella d’oro, sfondavano il cancello del Palazzo dell’Indipendenza. Si fermavano un attimo davanti alla facciata, sparavano una cannonata a salve e proseguivano la loro corsa sui prati, seguiti da una dozzina di altri blindati pesanti. Il generale Minh non si aspettava di incontrare il presidente dell’Fln, Nguyen Huu Tho, ma almeno un suo rappresentante con il quale celebrare la cerimonia della resa e del passaggio dei poteri. E invece si trovò davanti un semplice ufficiale, comandante della colonna corazzata, preoccupato soltanto di controllare il palazzo e di issare la bandiera della Repubblica del Vietnam.

Nel centro di Saigon sfilavano già i reparti di bo doi sotto gli sguardi stralunati della gente che usciva lentamente dalle case. Il comandante della colonna corazzata relegò il Big Minh e i suoi ministri in un salone, e il presidente esautorato due ore dopo avere assunto la carica venne invitato ad annunciare alla radio che la Repubblica del Sud era ufficialmente sciolta e che si era arresa al governo provvisorio rivoluzionario del Nord.
Poi sarebbe stata proclamata la riunificazione. Sul ponte che scavalca il Fiume rosso, nel Tonchino, ventun anni prima, un bo doi inseguì l’ultimo soldato francese che se ne andava sconfitto, e gli sferrò un calcio nel sedere. Il francese si voltò e salutò militarmente. Il vietnamita rispose allo stesso modo. Come un soldato. (Bernando Valli, La Repubblica).