Nomine, Mucchetti: “Il Parlamento non dà pagelle ma deve controllare il Tesoro”

di Redazione Blitz
Pubblicato il 11 Aprile 2014 - 10:05 OLTRE 6 MESI FA
Massimo Mucchetti (LaPresse)

Massimo Mucchetti (LaPresse)

ROMA – La risoluzione approvata dalla Commissione Industria del Senato presieduta da Massimo Mucchetti sui criteri per le nomine nei grandi gruppi, ha scatenato reazioni opposte: chi vi intravede un balzo in avanti per accrescere efficienza nella scelta dei candidati e chi paventa un ritorno ai tempi delle Partecipazioni Statali, un pericolo visto che i quattro gruppi finiti sotto la lente sono quotati in Borsa.

L’intervista a Mucchetti sul Messaggero di Roma:

Senatore Mucchetti, stiamo davvero tornando al passato?

«Tutt’altro. Il Senato fa tesoro dell’esperienza dei vent’anni passati e guarda al futuro. Finora lo Stato aveva attribuito a queste aziende una sola mission: creare valore per l’azionista. Un po’ poco. Queste grandi aziende possono infatti costituire formidabili motori di sviluppo per il Paese. In ogni caso, noi abbiamo cominciato proprio dalla mission conclamata, misurare la remunerazione del capitale investito».

Mi scusi senatore, ma il miglior giudice in questo campo è il mercato. A che serve il vostro giudizio? Non basta quello dell’azionista Tesoro?

«L’azionista valuta il management dai risultati tenendo conto del contesto. Il Tesoro è l’azionista e il Parlamento controlla il Tesoro. Senza invasioni di campo. Mica siamo entrati nel totonomine, chiediamo solo che il governo dia conto».

Siete però entrati nel merito delle gestioni di Terna, Finmeccanica, Enel ed Eni. Sicuro che il mercato gradisca?

«Era nostro diritto e dovere. Immagino che nessuno auspichi un Parlamento che registra il verbo senza capire e verificare».

E qual è il vostro giudizio sui singoli gruppi?

«Terna ha bene operato in un business regolato, quindi più facile rispetto a quelli in concorrenza. Il management ha però aggiunto valore con attività collaterali».

E su Finmeccanica?

«Il nuovo vertice ha operato una profonda ristrutturazione. Il governo ha approvato. La Borsa ha premiato il titolo. Va detto comunque che il nuovo vertice è in carica solo da un anno. Poco per una valutazione compiuta».

Non le sembra un po’ fuori luogo che top manager stimati in Europa e nel mondo debbano sottoporsi al giudizio di parlamentari che magari nemmeno conoscono il significato delle parole ebitda o cash flow? Non c’è un po’ di presunzione?

«Le quotazioni dicono che le reputazioni variano da persona a persona. La Commissione ha studiato, ascoltato e verificato. La relazione è sul sito».

La conclusione su Enel?

«Enel è diventata una multinazionale, ma la sua redditività è risultata inferiore all’impegno finanziario profuso, che lascia un debito ancora troppo rilevante».

E tuttavia le banche mostrano favore verso i manager attuali.

«Ho letto di questo favore non firmato. Ma di quali banche stiamo parlando? Mi pare che Enel sia indebitata sul mercato obbligazionario e assai poco su quello bancario. Non vorrei che fossero banche a caccia di incarichi».

I giornali hanno dato conto di un confronto serrato tra lei e l’ad dell’Eni, Paolo Scaroni, che ha respinto le vostre obiezioni.

«L’Eni ci ha deluso due volte: rispetto alla gestione precedente e rispetto ai gruppi concorrenti» (…)

La risoluzione sconsiglia al governo di nominare presidenti gli amministratori delegati perché non sarebbero indipendenti fin dalla prima nomina. Ma sull’indipendenza le interpretazioni sono più d’una.

«Secondo il codice di autodisciplina delle società quotate, e la logica aggiungo io, gli ex ad non sono indipendenti. Ma il codice non è legge. Il consiglio può anche decidere diversamente. Però se elevi alla presidenza chi è stato così a lungo capo azienda, questi continuerà a comandare quasi come prima, facendo anche venir meno la funzione di controllo implicita nella presidenza».